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Omicidio di Affori Simona Pozzi è libera La verità processuale la scagiona dalle accuse

Nel 2013 il pestaggio del padre Maurizio nella bergamasca. Nel 2016 il commerciante ucciso a martellate nella casa di via Carli. Nessuno è colpevole, il delitto resterà un cold case

di Anna Giorgi

MILANO

Simona Pozzi, la donna di 49 anni accusata di essere stata la mandante di una spedizione punitiva nei confronti del padre Maurizio, consumata nel 2013 e poi dell’omicidio del padre trovato morto nella sua casa di Affori nel febbraio del 2016, da ieri è una persona libera da ogni pendenza giudiziaria. In questi quasi dieci anni è passata dall’essere destinataria di una richiesta di ergastolo da parte della Procura di Milano, con l’accusa di aver fatto uccidere a martellate l’anziano genitore, conclusa con una assoluzione piena, al proscioglimento con sentenza di non doversi procedere per avvenuta prescrizione dell’accusa di lesioni gravi, nel processo d’appello in cui era accusata di essere la mandante dell’agguato nei confronti del padre, avvenuto nella bergamasca nel 2013. L’avvocato della Pozzi, Filippo Carimati, parla di "fine di un incubo durato troppi anni".

In effetti Simona Pozzi comincia ad essere nota alla cronaca nera il 5 febbraio del 2016 quando viene accusata di essere la mandante dell’omicidio del padre Maurizio, mite commerciante di scarpe, trovato con il cranio fracassato a martellate sul pavimento della camera da letto del suo appartamento di via Carli.

I fari della procura si accendono subito su di lei per tre motivi: il precedente che la ipotizzava mandante anche del pestaggio che costò al padre mesi di ricovero in un ospedale di Bergamo. E ancora: l’assassino dopo aver ucciso Maurizio, chiuse la porta dell’appartamento a chiave. Le uniche due persone che ne avevano una copia erano la moglie e la figlia. E soprattutto il movente: i livori mai sopiti sulla gestione del negozio di scarpe di Affori. Il padre Maurizio lo aveva aperto trent’anni prima e con i guadagni del negozio aveva mantenuto la famiglia, lei invece - stando a quanto risultava agli investigatori - subentrata nell’attività aveva accumulato solo debiti fino a collezionarne 800mila euro. Per sanare il buco la casa di famiglia di via Carli sarebbe andata presto all’asta. Secondo il castello accusatorio Simona avrebbe quindi prima tentato di uccidere il padre nel 2013 mentre era in vacanza nella Bergamasca. Tentativi grossolani di cui era stato incaricato il boss della ’ndrangheta Pasquale Tallarico che poi, in occasione di un successivo arresto nel 2017, avrebbe raccontato tutto agli inquirenti. La colpa dell’uomo sarebbe stata, appunto, quella di contrastare le spese folli della figlia. Poi avrebbe ritentato il colpo a Milano, studiando il piano nei dettagli. L’insofferenza per il padre, stando al fascicolo coordinato allora dall’aggiunto Alberto Nobili era emersa anche dai tanti messaggi su whatsapp che Simona Pozzi scambiava con gli amici, in cui confessava di tenerlo sedato.

Lei, in tutti questi anni, si è sempre difesa negando di essere la mandante, men che meno l’assassina: "Non c’è mai stato un omicidio. Mio padre è morto a causa di un malore. Io sono innocente e perseguitata dalla giustizia".

Ieri, l’ultimo atto di questa lunga e incredibile vicenda giudiziaria le ha dato ragione.

C’è una verità processuale che la assolve da tutto. E c’è un delitto efferato senza colpevoli.