La rivincita di Omar Pedrini: «Proprio in queste strade ho potuto essere me stesso»

Voleva fare il giornalista. Poi la musica ha vinto e i suoi "Timoria" hanno preso forma di Massimiliano Chiavarone

Omar Pedrini in via Sant’Agnese: il musicista ama passeggiare per le strade della città che gli ha consentito di realizzarsi

Omar Pedrini in via Sant’Agnese: il musicista ama passeggiare per le strade della città che gli ha consentito di realizzarsi

Milano, 28 settembre 2014 - «MILANO è la mia “Timoria”, la mia vendetta». Parola di Omar Pedrini.

Un momento. Ma non è il nome della band che ha fondato nella metà degli anni ‘80? «Sì, ma il nome significa in greco vendetta. Appunto qui a Milano mi sono preso la mia rivincita e ho potuto essere me stesso. Mi sono avvicinato alla musica molto presto e a 15 anni ho fondato, a Brescia, la mia città di origine, il primo nucleo di quelli che sarebbero poi stati i “Timoria”. Ma venivo guardato come “lo strano del paese”, soprattutto perché mi incaponivo a voler fare rock italiano. E invece lo sapevo di avere ragione».

La passione per la musica è nata tra i banchi di scuola? «In realtà molto prima. Vengo da una famiglia di musicisti. Il mio  bisnonno materno Giuseppe Briarava era un liutaio. Mia nonna suonava la chitarra e mia madre cantava. Era una hippy a cui piacevano molto Guccini, Bertoli e Vecchioni. Ci portava spesso ai loro concerti, me e mia sorella Paola. Mio padre, invece, Roberto, aveva un’officina meccanica, ma è un classicista esperto, traduce senza problemi dal latino e dal greco. E’ lui che mi ha spinto verso gli studi classici che ho affrontato con passione. E un piccolo segno è rimasto nel nome della band».

Quando ha cominciato a prendersi le sue soddisfazioni? «Dopo il liceo. A scuola la mia abilità in campo musicale era già nota, tanto che mi chiedevano spesso di scrivere canzoni sui prof, tra cui quella di matematica. Ma non mi prendevano sul serio. La musica, però, faceva a pugni con il giornalismo, altro mio grande amore. Ogni giorno compravo 3 o 4 quotidiani. Già in quarta ginnasio arrivavo in classe con la mia mazzetta. Dopo la maturità sono venuto a Milano a studiare Scienze Politiche, convinto che sarei diventato un giornalista».

E invece qui ha trovato la sua “Timoria”? «Sì, in una strada stretta. In via Santa Maria alla Porta, c’era lo studio “Divinazione” che organizzava un concorso per le band musicali, il mitico “Rock targato Italia”. Partecipai con il mio gruppo e ci aggiudicammo il primo premio. Era il 1987, avevo 20 anni. E da allora niente è stato uguale a prima. Per la Polygram incidemmo il nostro primo album “Colori che esplodono”, premiato come disco rock dell’anno dalla critica».

Realizzò anche il primo videoclip “Milano (non è l’America)”? «Milano è sempre presente nelle mie canzoni. E’ un continuo omaggio anche al grande fermento che caratterizza questa città. Questa città non si arrende a nessuna crisi, si difende con le idee. E con il valore delle grandi intelligenze che, in qualche caso, ho avuto la fortuna di incrociare. Come Francesco Caprini, grande organizzatore musicale, Gianni Sassi ineguagliato produttore  musicale e artista che purtroppo non c’è più e Giorgio Strehler. In questa città ho spesso camminato sulle spalle dei giganti».

La via che preferisce? «Via Sant’Agnese. Si trova l’Università Cattolica dove insegno Comunicazione musicale. E’ un po’ la via che rappresenta la mia rinascita. Credevo che l’esperienza da rockstar fosse archiviata, soprattutto dopo l’aneurisma che mi ha colpito nel 2004. Ho dovuto staccarmi da tutto e anche da Milano. Ma da circa due anni sono tornato a vivere in questa città. L’insegnamento mi dà una grande energia. Quando ho voglia di schiarirmi le idee e rivedere la lezione che devo tenere, mi rifugio nel Giardino Aristide Calderini sempre nella via Sant’Agnese. E’ uno spazio verde in cui ci sono reperti archeologici e statue di grande interesse. E mentre rileggo i miei appunti sono in buona compagnia, circondato da tanti studenti anche loro seduti sulle panchine a studiare per gli esami. Sono tornato anche a suonare e cantare con il mio ultimo album “Che ci vado a fare a Londra?” (Universal)».

Milano, dunque, è una città che ha nel suo dna l’amore per la cultura? «Sì, questa è la città dove si vendono più libri e dischi di tutto il resto d’Italia. Milano senza la cultura è morta. Anzi mi piacerebbe che letture pubbliche di libri, esecuzioni di musica dal vivo, incontri con gli autori e mostre fossero ancora più presenti. Perché come recitava uno slogan del ’68 ci vuole “meno politica nella cultura e più cultura nella politica».

di Massimiliano Chiavarone

mchiavarone@yahoo.it

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