MARIANNA VAZZANA
Cronaca

Omar Hassan, dalla periferia a Brera: “Ho vinto la rabbia con la creatività”

Figlio di padre egiziano e madre italiana, dipinge con i guantoni da boxe. “Voglio dare il mio contributo portando entusiasmo ai giovanissimi dei quartieri ai margini”

L'artista Omar Hassan

L'artista Omar Hassan

Milano, 5 dicembre 2024 – “Non ci vogliono etichette. Nessuna distinzione tra “noi“ e “loro“. Piuttosto serve un occhio di riguardo per le periferie, per tutti i ragazzi, indipendentemente dalle origini, perché la rabbia che tanti provano possa essere incanalata in maniera costruttiva. Questa è la soluzione. Anche io ho provato rabbia nella vita, per motivi diversi, e mi ha salvato l’arte.

Ora voglio fare qualcosa, dare il mio contributo: ho scelto di rimanere, di tornare nel luogo da cui sono partito, perché credo ci sia bisogno di aiuto. E io voglio dare il mio contributo avvicinando l’arte ai giovanissimi dei quartieri ai margini”.

Omar Hassan, 37 anni, è cresciuto a Lambrate  (foto di Pietro Baroni)
L'artista Omar Hassan

È la “ricetta“ dell’artista Omar Hassan, trentasettenne, cresciuto a Lambrate e da anni residente a Pioltello. Ha interrotto la sua carriera da pugile professionista a 19 anni, una scelta dettata dal diabete da cui è affetto. Ma non ha mai messo da parte i suoi guantoni, anzi li utilizza per creare le sue opere d’arte. “Non è stato un ripiego – precisa –, piuttosto ho unito naturalmente le due mie grandi passioni. Io mi sono diplomato in pittura all’Accademia di Brera, ho grande riconoscenza per il mio professore Alberto Garutti (artista considerato il maestro dell’arte pubblica, è scomparso lo scorso giugno, ndr) e cerco di seguire le sue orme”.

Il Corvetto è stato teatro di proteste dopo la morte di Ramy Elgaml, che lì abitava. I segnali di tensione le hanno fatto rivivere un clima respirato da adolescente, oppure no?

“No, per me è stato diverso. Io sono nato a Milano, figlio di padre egiziano e madre italiana. L’unico “straniero”, per modo di dire, al parchetto e in classe, insieme a un ragazzino peruviano. Nei nostri confronti c’era piuttosto curiosità e accoglienza. Io ho scampato il periodo del “non c’è più un italiano in classe“ che genera divisione. Certo, mi sono sempre trovato un’etichetta addosso per via del nome ma non ho mai voluto che fosse un limite.

Anzi, il fatto di essere figlio di culture diverse è sempre stato per me un punto di forza perché mi sono sempre sentito cittadino del mondo. Da Pioltello sono andato a Miami, non volevo confini. E questo mio sentire l’ho ritrovato nell’arte che non ha bandiere né confini né religioni”.

Pensa che per gli immigrati di seconda generazione ci sia un “deserto di opportunità“?

“Io penso che in generale tutti i ragazzi, soprattutto coloro che hanno meno possibilità culturali e sociali, debbano avere una luce, un’attenzione in più. Dobbiamo imparare dalla storia e dagli altri Paesi; guardo alla Francia, per esempio, e penso che tanto si sarebbe potuto prevenire incanalando la rabbia in maniera diversa, costruttiva, prima che esplodesse.

Certo, è facile dirlo ma è difficile mettere in pratica questo proposito. Difficile accostarsi a ragazzi accecati dal dolore, come gli amici di Ramy. Ma il percorso si costruisce a poco a poco. Io non potrò cambiare le cose ma sento di dover dare il mio contributo, da artista e da figlio di due culture. A casa mia è sempre andato tutto bene perché c’era tolleranza, si può vivere bene facendo il Ramadan e festeggiando il Natale se ci si rispetta l’un l’altro e se si condividono i momenti. Una tragedia come quella di Ramy deve spingere al cambiamento”.

In che modo?

“Bisogna far nascere nei ragazzi l’entusiasmo. Io voglio impegnarmi portando l’arte laddove se ne sente di più la mancanza. Ho in mente un progetto che ancora non svelo, per scaramanzia. Intanto posso dire l’auspicio: che attraverso l’arte qualcuno possa trovare ispirazione per la sua vita”.