Numero chiuso? È assurdo oltre che inutile

Daniele

Nappo*

assurdità del numero chiuso all’università potrebbe essere dimostrata, per fare un solo

esempio, dal fatto che da quando è stato introdotto, nel 1983, nella facoltà di Medicina e via via nei corsi delle professioni infermieristiche, il risultato è che mancano decine di migliaia di medici. Si potrebbe parlare quindi di un gravissimo errore di calcolo fra la necessità del mitico

“mercato” - la richiesta di decine di migliaia di professionisti qualificati - e l’ottusità nella programmazione degli accessi allo studio. Di “baronia” della categoria, di una cultura

sbagliata che crede che il numero chiuso garantisca una migliore preparazione, di un

taglio fortissimo di investimenti nell’università spacciato per una organizzazione più

efficiente. Tutto vero, ma non basta. L’errore è proprio insito nel numero chiuso tra l’altro

esteso anche a molte facoltà umanistiche.Negli anni sono stati svolti studi internazionali e nazionali che dimostrano che i

laureati in una facoltà non sono in grado di per sé di superare i test di accesso del loro stesso percorso di studi. Molte volte, poi, è stata denunciata l’assurdità delle domande dei test. Arriviamo al dunque. È la logica stessa della modalità di selezione che è assurda. Di

norma uno studente dovrebbe poter frequentare i corsi di una materia, approfondire gli

argomenti, colmare le proprie lacune, valorizzare le conoscenze precedenti e acquisite, avere un tempo adeguato per la preparazione e verificare quanto ha appreso agli esami dove è giusto che sia promosso o bocciato. Come faccia a conoscere le varie materie senza che gli siano state insegnate è incomprensibile.

L’opposizione al numero chiuso non è quindi ideologica ma tecnica. Concludendo

credo sia interessante ricordare la “pubblicità” di una università la quale sosteneva, anni fa, che entro pochi mesi dalla laurea la gran parte dei suoi ex-studenti sarebbero stati

assunti. Un’analisi di una facoltà di un’altra università ha affermato, al contrario, che il

50% dei laureati veniva assunto in aziende di proprietà familiare e che il 40% apparteneva a classi sociali elevate per censo, istruzione, posizione e relazioni. Il rimanente 10% adoperava lo stesso tempo di qualsiasi altra università per trovare un impiego. Difficile sapere con certezza chi fra i due atenei avesse ragione, ma è uno spunto di analisi e di riflessione interessante.

*Istituto Freud Milano

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