NICOLA PALMA
Cronaca

Moschea abusiva, condannato: 6 mesi e multa al rappresentante di un'associazione islamica

Nell’esaminare la vicenda gli ermellini hanno approfondito il tema del bilanciamento tra il diritto di professare liberamente la propria fede e il dovere di rispettare le regole urbanistiche

Tribunale (foto d'archivio)

Milano, 6 settembre 2019 - Via Cavalanti, a due passi dalla Stazione Centrale. Il 6 ottobre 2014, gli agenti della polizia locale entrano nel seminterrato dello stabile al civico 8 e trovano quattrocento persone in preghiera. Ne seguiranno altri di sopralluoghi, a seguito delle lamentele dei residenti: i ghisa annoteranno la presenza di tappeti sull’intera superficie dell’ex deposito, spazi riservati alle donne, fogli con gli orari di preghiera e bagni costruiti ad hoc. A poco meno di 5 anni da quelle verifiche, finita pure al centro di un contenzioso con Palazzo Marino, è arrivata la sentenza della Cassazione sull’aspetto penale della controversia, relativo all’abuso edilizio consistito nel «mutamento di destinazione d’uso» da magazzino a moschea: Abu Hanif Patwer, in qualità di rappresentante della Bangladesh Cultural and Welfare Association (la stessa che nel 2015 si aggiudicò gli ex bagni pubblici di via Esterle nel bando comunale poi revocato), è stato condannato per quel reato «contravvenzionale» alla pena di 6 mesi di arresto e a 9mila euro di ammenda. Nell’esaminare la vicenda, gli ermellini hanno pure approfondito nel dettaglio il tema del bilanciamento tra il diritto di professare liberamente la propria fede (l’Islam in questo caso) e il dovere di rispettare le regole urbanistiche. La difesa di Patwer ha puntato «sull’assenza di una chiara normativa in materia» (derubricando la condotta a «errore scusabile») e avanzato la richiesta di «sollevare questione di legittimità costituzionale» sulla legge regionale che ha inserito una serie di requisiti stringenti per l’apertura di nuovi luoghi di culto.

Delle due l'una, la sintesi: o si consente «ai professanti la fede islamica», in assenza di spazi assegnati, di riunirsi in preghiera in luoghi privati senza il rischio di «andare incontro a violazioni di carattere penale (e amministrativo)», oppure la normativa «che vieta tali riunioni è incostituzionale». I giudici hanno dichiarato infondati o inammissibili tutti i motivi presentati. Con una premessa: non c’è dubbio che la condotta di Patwer abbia determinato «un concreto mutamento della destinazione d’uso originaria dell’immobile», generando un «aggravio del carico urbanistico» con l’assembramento di 400 persone in un luogo al quale si poteva accedere soltanto da un cortile condominiale e senza uscite di sicurezza («Il che determinava anche un pericolo per la pubblica incolumità»). E ancora: va escluso, per la Cassazione, che l’imputato «sia incorso in un errore incolpevole»; secondo i giudici, la non chiarezza delle leggi avrebbe dovuto spingere Patwer «a non agire piuttosto che a eseguire comunque i lavori». Sulla questione ben più complessa delle paventate limitazioni alla libertà di culto introdotte da Regione Lombardia, gli ermellini, pur tenendo conto dei rilievi della Corte Costituzionale nel 2016, non hanno ravvisato in questa vicenda «alcuna discriminazione» derivante da quella norma, «essendo il permesso di costruire richiesto a prescindere dal culto professato, ovvero dall’esistenza o meno di un’intesa con lo Stato».