Issaka Coulibaly, morto di freddo a 27 anni il portiere della squadra dei rifugiati

Arrivato dal Togo e reclutato nella St. Ambroeus, era tornato nell’ombra. Senza documenti né casa, è stato trovato senza vita in strada davanti a un edificio abbandonato

Issaka Coulibaly

Issaka Coulibaly

Milano - ​I morti invisibili non fanno rumore. I morti invisibili nessuno li cerca. Ma se agli occhi della gente possono sembrare fantasmi uccisi dalla clandestinità, anche loro hanno un volto, un cuore, una dignità. E soprattutto una storia.

Come quella, tristissima, di Issaka Coulibaly, il ragazzo nato in Togo 27 anni fa e fuggito in Italia alla ricerca di un destino diverso, inseguendo il sogno di tutti i suoi coetanei: un pallone che rotola sui campetti del Belpaese. Ma la sua vita, per ironia della sorte, si è interrotta nell’indifferenza di tutti, proprio a pochi metri da quel centro di accoglienza dove aveva sperato di rinascere: il corpo esanime di Issaka è stato ritrovato lo scorso 25 novembre a Milano di fronte all’ex caserma Mancini, in un edificio abbandonato di via Corelli, che di sera si trasforma in una sorta di dormitorio abusivo per i richiedenti asilo di chi non ha nulla.

Coulibaly da tempo non aveva un lavoro, non aveva una casa e neppure un letto dove riposarsi. Nella sua tasca fu rinvenuto solo un documento che dava un nome e un cognome a quell’anonimo clochard. I soccorritori chiarirono subito ai poliziotti: nessun segno di violenza, decesso avvenuto per cause naturali. Morto per freddo, come accade a tanti migranti irregolari. Due mesi dopo è venuta fuori un’altra verità, che non può certamente addolcire una fine tanto assurda e ingiusta quanto dolorosa ma che aumenta i rimpianti per non essere riusciti a salvare una vita umana. A raccontarla sulla sua pagina social è il St. Ambroeus, società sportiva che ben conosceva Issaka e che è stata, cinque anni fa, la prima in Italia ad iscrivere a campionati Figc una squadra composta da rifugiati e richiedenti asilo. Con il “Piccione“ (così vengono definiti i meneghini, attualmente iscritti al campionato di Seconda Categoria) Coulibaly aveva giocato proprio sui campi di via Corelli come portiere. E Milano era diventata la sua città.

"Abbiamo appreso con estremo dispiacere della morte di Issaka, il portiere di una squadra di amici che è venuto ad allenarsi con noi negli scorsi anni", si legge sul post pubblicato sulla pagina del club in un ricordo struggente. "Si parla di morte naturale a causa del freddo. Ci sono morti per cui si può solo provare enorme dispiacere, ci sono morti invece per cui non si può che provare molta rabbia. Morire di gelo in una città come Milano non può essere classificato semplicemente come morte naturale, se a Issaka fosse stato concesso di vivere regolarmente con dei documenti molto probabilmente non staremmo scrivendo questo post, e lui, con una vita regolare, magari starebbe pensando a come rincominciare il campionato dopo la pausa invernale", le parole dei dirigenti e dei ragazzi che lo hanno conosciuto. La fotografia è quella di una realtà amarissima.

"Issaka è morto di clandestinità, perché quando non ti viene concesso di avere dei documenti sei costretto a vivere e a morire ai margini della società, senza un permesso di soggiorno, senza la possibilità di lavorare regolarmente, senza la possibilità di affittare una casa, guidare una macchina o accedere a quei servizi basilari che sono concessi a tutti". Poi la chiosa finale: "Eri un portiere fortissimo, ti vogliamo ricordare così, in mezzo ai pali del torneo estivo del Pini che porti la tua squadra in finale". Un messaggio forte, condiviso da centinaia di follower e accompagnato dalla foto di Issaka: capelli e pizzetto biondi, divisa da portiere e scarpette da calcio. E, al braccio, la fascia da capitano.

"Purtroppo non avevamo sue notizie da tempo – spiegano dall’Fc St. Ambroeus senza darsi pace –. Sono passati centinaia di atleti nel nostro progetto perché vediamo lo sport come strumento di coesione sociale tra migranti e autoctoni milanesi, ma la realtà è che molti degli individui arrivati qui dal Mar Mediterraneo non vivono neanche più in Italia". Vero. Perché l’integrazione sbatte contro regole e burocrazia. E in quel caso bisogna solo sperare nei giudici, come è accaduto a Samba Diouw Sow, cittadino senegalese ed ex calciatore del St. Ambroeus: aveva trovato impiego grazie a Labour-Int e nel 2018 la Corte di Appello di Milano ha accolto il suo ricorso contro il diniego della domanda di riconoscimento della protezione interzionale. Purtroppo un caso isolato.

"Ci sono tanti ragazzi di origine africana che giocano a calcio, studiano l’italiano e dopo iter formativi si approcciano al mondo del lavoro, guardando il futuro con speranza – spiegano dal St. Ambroeus –. Ma ci siamo trovati di fronte anche a decine di situazioni di persone che pur avendo svolto un percorso di integrazione, trovato un impiego, imparato perfettamente la lingua creandosi un contesto sociale amichevole in cui inserirsi, si vedono negata la possibilità di vivere regolarmente in Italia". E a quel punto la clandestinità ti taglia fuori da tutto. Fino a ucciderti.

 

 

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