
La paziente era stata operata alla trachea
Milano - É scesa per sette piani d’ospedale senza che nessuno la vedesse. Nuda dalla vita in giù, scalza, un telo bianco tra le mani e sulla gola ancora la cannula del drenaggio post-operatorio. E’ arrivata così, agitata, confusa, stravolta, fino al sotterraneo, dove una crisi cardiaca l’ha fatta finire a terra. La mattina dopo l’hanno trovata con il volto insanguinato rivolto verso il muro, ormai senza vita.
Successe un anno fa all’Istituto dei tumori di via Venezian e da allora le figlie non si danno pace. La loro madre, 78 anni, aveva appena superato un’operazione alla trachea e l’avevano potuta vedere solo qualche minuto dal vetro. Era aprile, pieno lockdown. La donna era agitata, comunicò telefonicamente ai famigliari l’istituto, ma non c’era bisogno di assistenza notturna perché comunque era "ben monitorata". Però quella mattina la paziente si alzò prima dell’alba strappandosi tutti i tubicini, scese dal letto e prese a vagare nei corridoi dell’ottavo piano. Di fronte alla sua stanza c’era quella degli infermieri, che non s’accorsero di nulla. Le videocamere di sorveglianza la mostrano mentre esce dalla camera alle 5.11, prima fermandosi davanti ad un ascensore, poi di fronte ad una porta a vetri e infine mentre imbocca un corridoio del reparto, che percorre fino a scomparire dalla visuale. Alle 5.21 l’anziana ricompare al seminterrato del blocco 1, prima di dirigersi verso il cortile del blocco 2B dove rimane fino alle 5.25, quando esce definitivamente dalla visuale.
Stando all’autopsia disposta dalla Procura, che ha aperto un’indagine, la donna morì per una "trombosi coronarica acuta produttiva di un evento aritmico fatale". Una consulenza medico legale depositata dagli avvocati Roberta Busà e Giovanni Esposito per conto di una delle figlie, avrebbe evidenziato un primo errore dei sanitari nella mancata somministrazione alla 78enne di farmaci per problemi cardiaci già emersi prima dell’operazione. In secondo luogo, la crisi nervosa che produsse l’aritmia fatale avrebbe dovuto essere notata dal personale di turno e tenuta sotto controllo con farmaci adeguati. Infine, se fosse stata vista e soccorsa nell’arco di 4-5 minuti dalla crisi, la donna si sarebbe potuta salvare.Per l’avvocato Busà esiste quindi una "duplice e grave responsabilità del nosocomio": sia per la "mancata somministrazione di terapie" che avrebbero impedito la crisi di cuore, "sia per omessa vigilanza e conseguente omesso soccorso su una paziente che aveva staccato i dispositivi medici cui era collegata e aveva vagato senza essere vista per tutto l’ospedale".