
Moltissimi abiti usati raccolti in Italia finiscono per essere venduti all’estero. Lo conferma il report l’"Italia del riciclo 2021" della Fondazione sviluppo sostenibile e Unicircular: "Oltre alla destinazione verso le numerose aziende nazionali situate storicamente nei due poli di Napoli e Prato (dove si trovano i principali centri di smistamento, ndr) la principale destinazione degli abiti usati raccolti in Italia (e negli altri Paesi europei) è l’esportazione". Per l’Italia i principali mercati di riutilizzo sono la Tunisia e l’Est europeo - che assorbono oltre un terzo delle esportazioni -; flussi significativi anche verso Ghana e Niger.
Gli stracci e gli abiti destinati alla trasformazione in pezzame e imbottiture viaggiano invece in direzione di India, Pakistan e Cina. Il flusso esportato dall’Italia ha oscillato negli ultimi anni tra 100 e 150mila tonnellate: metà di quello della Gran Bretagna e un terzo della Germania. "Le esportazioni rappresentano una vera integrazione di filiera in quanto questi prodotti post consumo, classificati come rifiuti raccolti in Europa, vengono acquistati da aziende che li selezionano per ottenere merce da commercializzare per il mercato dell’usato nazionale e internazionale e materiale" non da smaltire "ma da trattare per il riciclo", si legge nel report. Il vantaggio è allungare il ciclo di vita dei prodotti secondo un modello di economia circolare. Tuttavia c’è un rovescio della medaglia: questo enorme flusso di capi rischia di danneggiare l’industria dell’abbigliamento locale nei Paesi importatori. Per questo Cina, India, Sud Africa, Brasile e altri Paesi emergenti hanno imposto consistenti restrizioni o un vero divieto all’importazione di abbigliamento usato. In particolare l’India, su scala mondiale il principale mercato di rilavorazione di stracci e abiti usati, impone la "mutilazione" dei vestiti per bloccarne la vendita sul mercato. A. L.