
Giovanni Germi, funzionario dell’Inca-Cgil di Milano che ha raccolto le testimonianze
Il ricordo torna a quel "compagno di prigionia sorpreso dalle guardie mentre si riposava durante il turno di lavoro", colpito alla testa dai soldati nazisti con tanta forza che "dopo qualche giorno di agonia morì". Gli operai delle miniere ridotti a "scheletri viventi" dalla malnutrizione e dal lavoro massacrante: "La metà di loro non fece più ritorno a casa". Immagini dell’orrore risalenti agli anni ’40 del secolo scorso, messe nero su bianco quando correva l’anno 2000.
All’epoca 570 ex militari italiani deportati in Germania, in Austria e in Polonia dopo l’8 settembre 1943 si presentarono nella sede del patronato Inca-Cgil di Milano. Alcuni disegnarono la piantina del lager, altri allegarono fotografie dell’epoca, piastrine di riconoscimento e lettere, depositando lunghi e dettagliati resoconti o dichiarazioni di poche righe. Una sfilata di persone, all’epoca avevano circa 80 anni, che hanno scavato nei loro ricordi per chiedere un risarcimento alla Germania per essere stati costretti a lavorare come schiavi nelle fabbriche e nelle fattorie del Reich, in condizioni disumane. "Una volta completato il dossier nell’arco di due mesi – ricorda Giovanni Germi, il funzionario dell’Inca-Cgil di Milano (ora diretto da Francesco Castellotti) che raccolse le testimonianze – siamo partiti per Roma e abbiamo presentato le 570 istanze all’ufficio competente". Istanze (60mila a livello nazionale, attraverso diversi canali) che furono quasi tutte respinte nel 2001 dalla Germania, perché i 650mila soldati italiani deportati dopo l’8 settembre furono considerati "prigionieri di guerra" e non schiavi del nazismo.
Tra le 570 domande di indennizzo presentate dalla Cgil milanese è stata accolta solo quella di una donna italiana, classe 1926, che fu "fatta prigioniera dai tedeschi mentre si trovava in Germania come regolare lavoratrice civile", portata nel "lager Europa 27" a Breslavia e costretta ai lavori forzati in una fabbrica di aerei, fino alla liberazione da parte dell’esercito sovietico. Ottenne l’indennizzo (le cifre oscillavano da 2 a 15 milioni di lire) proprio perché non faceva parte dell’esercito. Quei documenti, dopo la beffa del mancato risarcimento, sono rimasti per più di vent’anni in un armadio alla Camera del Lavoro di Milano, sede della Cgil. Fino a quando, quest’anno, sono tornati alla luce a sorpresa, mettendo ordine fra le carte. Sono stati salvati dal macero e catalogati, in collaborazione con l’Istituto di Storia contemporanea Perretta. Gli autori degli scritti, ventenni durante la Seconda guerra mondiale, adesso sarebbero centenari, mentre si sta scrivendo un nuovo capitolo nella partita infinita sui risarcimenti per i crimini nazisti.
L’Italia ha istituito infatti, nell’ambito del Pnrr, un fondo di 61 milioni di euro fino al 2026 per indennizzare le vittime di eccidi, stragi naziste e deportazioni. I parenti dei 570 milanesi ( impossibile sapere se abbiano presentato o meno una nuova istanza) potrebbero potenzialmente ottenere giustizia 80 anni dopo, anche se la norma è già finita davanti alla Corte Costituzionale per valutare la legittimità. "Ci farebbe piacere organizzare una mostra – spiega Debora Migliucci, una delle curatrici dell’Archivio del Lavoro Cgil – si tratta di materiale con valore storico che potrebbe essere utile anche per ricerche e tesi universitarie".
Nel dossier centinaia di racconti da incubo, storie di coraggio, amicizie nate tra soldati rastrellati in Italia, in Grecia, in Albania o in Montenegro, caricati su carri bestiame "senza cibo e acqua" e usati dai nazisti come schiavi per l’industria bellica. Rino Merlo scrive di essere stato Deportato a Dortmund per "non aver aderito alla proposta di combattere assieme alle forze militari della Germania". Marcello Bedosti, all’epoca marinaio sull’Adriatico, ha conservato il segno indelebile di una "cicatrice sul naso dovuta a un colpo con il calcio del fucile". Altri ex soldati hanno ricordato le 12 ore al giorno di lavoro in fabbrica, nei campi, a scavare trincee e costruire bunker, la fame, la liberazione e il lungo viaggio per tornare a casa e riabbracciare genitori e fidanzate. Amputazioni e danni permanenti dovuti a infortuni sul lavoro. "Sono dimagrito di quasi 30 chili", scrive Marino Donati. "Quando non si stava più in piedi i cani ti mordevano – è il drammatico racconto di Carlo Giuli – ho visto morire fucilati giovani perché sfiniti da fame e freddo, e altre cose orribili che dopo 55 anni il ricordo è molto vivo. Basta – conclude – i ricordi mi fanno male".