
24 novembre 2016, ristorante in via Dante. Al tavolo sono seduti Emanuele Micelotta, emissario della società Sicilog, e l’allora funzionaria del Comune Giovanna Afrone, responsabile del Servizio gestioni contratti traversali. Il primo contatto tra i due per parlare di appalti, favorito dal pensionato Domenico Palmieri, ex sindacalista e dipendente della Provincia dal 1974 al 2012. Un esempio plastico di tentativo di infiltrazione delle cosche nella pubblica amministrazione per fare soldi coi cantieri, sfruttando le provviste accantonate con centinaia di fatture false per oliare i funzionari giusti. Un tentativo che andò a buon fine, tanto che Palmieri (che ha patteggiato 3 anni e 4 mesi) fu ricompensato (come certificato daile foto scattate dagli investigatori) con un compenso "pari al 2 o 3% dell’ammontare complessivo dei lavori". Quell’organizzazione criminale, che secondo gli accertamenti della Dda era legata a doppio filo al clan catanese dei Laudani, fu smantellata nel maggio 2017; e l’indagine coordinata dal pm Paolo Storari fece emergere quanto gli emissari dei boss fossero arrivati in alto, fino ad accaparrarsi con la Securpolice dei fratelli Alessandro e Nicola Fazio la vigilanza del Palazzo di Giustizia. I processi hanno confermato l’impianto accusatorio, e le sentenze di merito hanno passato pure il vaglio della Cassazione.
Così nel primo pomeriggio di mercoledì i carabinieri del Nucleo investigativo hanno bussato alla porta dell’appartamento di Micelotta, ai domiciliari, per portarlo a San Vittore, in esecuzione di un ordine di carcerazione per un cumulo pene di 9 anni di reclusione per associazione mafiosa, corruzione e reati tributari; 7 di questi sono stati comminati al cinquantenne proprio per la sua partecipazione al gruppo guidato dall’imprenditore Luigi Alecci e da Giacomo Politi. Un gruppo che, si legge nelle motivazioni del verdetto di primo grado, si sarebbe dedicato "sistematicamente alla commissione di reati tributari oltre che a fatti di corruzione nei confronti di soggetti pubblici e privati". Come? Mettendo in piedi una sorta di "organizzazione criminale “di impresa“" alimentata "da un giro di società intestate a prestanomi, che venivano periodicamente create e poi poste in liquidazione dopo essere state spogliate di ogni bene".
N.P.