Parsi
Inizio questo articolo con la celebre frase di Oscar Wilde: “Una mappa del mondo che non preveda il paese dell’Utopia non merita neppure uno sguardo”. Alla parola “utopia” vorrei sostituire la parola “miracoli”. Chi non crede ai “miracoli” può esimersi, a mio avviso, anche dallo sperare nell’utopia che la vita possa, per poco o a lungo, diventare più potente, necessaria, forte, indomabile quando si tratta di affrontare e sconfiggere l’angoscia di morte che è madre di tutte le angosce umane. Ed è, perciò, capace di attivare tutte le difese psicologiche a disposizione di chi, nascendo, sa che la sua vita, come ogni vita, avrà fine. E, anzi, che si possa sconfiggere con “ il colore del grano dei ricordi” anche quando venga meno la vita corporale. Di Indi Gregory, una creatura di otto mesi tenuta in vita, fino al mezzogiorno di sabato, da macchinari perché affetta da una incurabile malattia mitocondriale, resterà il ricordo quale protagonista di una titanica battaglia che la dice lunga sul conflitto tra l’amore e la speranza nel miracolo dei suoi familiari, il parere dei medici di Nottinghan e l a sentenza dei giudici che ne hanno decretato legalmente la morte. L’Italia avrebbe accolto, quale cittadina onoraria e straordinaria, quella bambina e i suoi genitori nell’Ospedale Bambin Gesù. Ma questo non è stato possibile per questione di tempo. Come rapportarsi ad un simile odioso “nodo” di morte, sospeso tra la speranza nel miracolo e rifiuto di favorirlo se non considerando che, per Indi, l’essere venuta al mondo, come per tutti gli esseri umani, non è certo stata una sua scelta. E che, come per la stragrande maggioranza degli esseri umani, neppure il morire. Il vero dramma è ancora quello di accettare l’umana impotenza difronte alla morte. E, nel ricordo di Indi, lottare per impedire la morte di tanti , troppi bambini, costretti precocemente a soccombere, fisicamente e psichicamente, per la mostruosa violenza di adulti incapaci di evitare loro guerre, violenze, migrazioni, calamità “innaturali” e povertà.