GIAMBATTISTA ANASTASIO
Cronaca

"La persona prima della sua sindrome" Così per i disabili la vita autonoma è realtà

Percorsi personalizzati, niente centri protetti ma alloggio e bottega tra la gente del quartiere: il modello di CondiVivere

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di Giambattista Anastasio

Non nelle strutture protette, ma nei luoghi che scandiscono la quotidianità di chiunque. Non partendo dalla sindrome, ma dalla persona. Non in base ai limiti con i quali ognuno ha a che fare, ma in base alle potenzialità che ognuno può esprimere. Non seguendo una logica assistenzialista, ma puntando sulla responsabilizzazione, incoraggiando la capacità di scegliere. Non un cammino standardizzato tra caselle e attività predefinite ma un percorso di interiorizzazione ed evoluzione. Senza mai dimenticare e, anzi, partendo dalla famiglia e dalla formazione della famiglia. È questo il credo con il quale la Fondazione CondiVivere e la Cooperativa sociale “Sì, si può fare“ aiutano le persone con disabilità cognitive a realizzare un progetto di vita autonomo. Valori mutuati dall’insegnamento del pedagogista Nicola Cuomo, padre della metodologia “Emozione di Conoscere“, che la Fondazione segue da 12 anni sotto la regia scientifica del team psicopedagogico di Aemocom, guidato dalle dottoressa Imola, Bacciaglia e De Pellegrin. 

Contesti, non strutture. Il contesto dal quale tutto ha origine, è una palestra di Bresso, quella nella quale il maestro Aldo Piatti porta avanti la missione di integrare disabilità e judo, tenendosi lontano da classi separate. Qui si incontrano le famiglie che avrebbero poi costituito la Fondazione CondiVivere, presieduta da Canio Muscillo. Piatti, infatti, lavorava con Cuomo. L’idea è dar vita ad una Fondazione che promuova il metodo del noto docente universitario. A ruota arriverà la Cooperativa, per poter attuare quel metodo, senza distinguere in base alla sindrome. La prima direzione verso la quale si volge l’azione della Fondazione è, piuttosto, la formazione delle famiglie delle persone con disabilità cognitive. "Lo step iniziale di ogni progetto di vita autonoma si realizza tra le mura domestiche – spiega Muscillo –, la prima palestra di autonomia è la casa, quindi la famiglia ha un ruolo centrale: se è collaborativa, se è disposta a cambiare il modo di relazionarsi ad un figlio con disabilità, a superare l’istinto ad assisterlo sempre, spesso in via preventiva, allora il ragazzo può compiere un passo verso l’autonomia e una maggiore autostima. I genitori non sono lasciati soli: mediatori di nostra fiducia, altamente formati, trascorrono alcune settimane o alcuni mesi in casa con loro, in modo da poter relazionare al comitato scientifico della Fondazione, che poi valuterà il da farsi". Il secondo step è quello relativo alla mobilità. "Il mediatore aiuta il ragazzo a orientarsi e muoversi coi mezzi pubblici. Lo fa ricorrendo a foto, mappe e video, ma anche ad imprevisti creati ad arte, errori di percorso del tutto voluti, ma utili a sollecitare nella persona con disabilità la capacità di risolvere i problemi. "Questo – rimarca Muscillo – è un altro tassello verso la conquista dell’autostima e l’emancipazione". La casa natìa, i mezzi Atm: luoghi del reale, luoghi di tutti. E così sarà sempre lungo il percorso.

La scuola delle autonomie. Una volta acquisita la capacità muoversi col trasporto pubblico, ecco la possibilità di trascorrere del tempo lontano dalla casa dei genitori, in un appartamento che la Cooperativa, guidata da Alberto Aldeghi e Paola Schwarz, ha concepito come una scuola delle autonomie, secondo la lezione di Cuomo. Si trova in via Trevi, ha posto per tre persone, gli ospiti sono seguiti da un mediatore ma sono spronati a gestire da soli ogni aspetto della quotidianità: "Il frigo non è mai pieno – spiegano Muscillo e Aldeghi –, proprio perché i ragazzi possano decidere di volta in volta cosa vogliono mangiare e provvedere a procurarselo". Solo un esempio della filosofia che guida la Fondazione: "Nessuna imposizione. Stimoliamo la capacità di scegliere, di organizzarsi e assumersi responsabilità" spiega Aldeghi. In una parola: "Autodeterminazione".

La bottega. Nel soggiorno dell’appartamento campeggia una lavagna sulla quale, giorno per giorno, è indicato a chi tocca fare cosa. È simile al “Tabellone delle responsabilità“ in cui ci si imbatte una volta entrati nel retro di un negozio di alimentari biologici: “Il bottegaio nostrano“ di via Tartini. Non è un punto vendita qualunque, c’è di nuovo lo zampino di CondiVivere, che ne è titolare e gestore: si tratta prima di tutto di un luogo di formazione, di un altro step del percorso, di un altro laboratorio di autonomia. Stavolta l’autonomia è quella lavorativa. L’aspetto commerciale esiste, ma viene dopo: i prodotti vengono esposti sugli scaffali secondo una disposizione che mira non solo ad attrarre il cliente ma anche ad agevolare il compito delle persone con disabilità cognitive che si stanno formando nella bottega. A coordinarli nelle attività di gestione del negozio non è un manager ma Francesca Melchiorre, mediatrice pedagogica che aiuta i ragazzi a portare a compimento le proprie mansioni. L’aspetto straordinario è che le competenze e le abilità apprese in questa bottega hanno permesso ad alcuni ragazzi di essere assunti altrove. C’è chi oggi lavora in una nota catena della ristorazione, chi nella mensa interna di un hotel e chi in un laboratorio di restauro: l’autonomia lavorativa che si fa realtà. Via Trevi, via Tartini e, ancora, via Carnevali, dove c’è un altro appartamento, stavolta per l’autonomia abitativa di chi ha disabilità complesse. L’indirizzario non è casuale: si tratta di vie ravvicinate, tutte nel quartiere di Dergano. "Abbiamo scelto di collocare qui la nostra rete perché per perseguire al meglio i nostri scopi avevamo bisogno di una dimensione di quartiere, di piccoli negozi dove i contatti e i rapporti umani potessero essere diretti – fa sapere Teresa Bellini, anche lei della Fondazione e referente lombarda di Confad –. Chi lavora negli esercizi della zona conosce i nostri ragazzi". Luoghi aperti, appunto. Interazione col reale, di nuovo. C’è anche chi vive fuori dal quartiere, in via Fiamma, in un altro alloggio della Fondazione e in co-housing con due inquilini che, a fronte di un canone calmierato, devono garantire la loro presenza alla sera. Non sono mediatori, sono persone che fanno altro nella vita. Ma qui la presenza di mediatori non è immediatamente necessaria perché i ragazzi che abitano in via Fiamma hanno raggiunto un elevato livello di autonomia, sono avanti nel percorso, sono la dimostrazione che uscire dagli schemi non è solo possibile ma è anche una scelta fertile.