ALESSANDRA ZANARDI
Cronaca

La madre di Giacomo, suicida in cella: "Mio figlio è morto di abbandono"

Si è tolto la vita a 21 anni a San Vittore. "Un ragazzo fragile che non ha avuto aiuti adeguati dalle istituzioni"

Carcere

 

Quei tatuaggi sulle sopracciglia, con le scritte "help" e "save me", sembrano quasi un appello. Il grido d’aiuto di un ragazzo fragile, con una storia travagliata alle spalle. Una storia finita prematuramente, a soli 21 anni, nella cella di un carcere, dove ha deciso di togliersi la vita. Giacomo Trimarco, figlio adottivo di una coppia di sandonatesi, è uno dei due giovani detenuti che si sono suicidati negli ultimi giorni a San Vittore, nel settimo reparto della casa circondariale milanese. Nella notte del 26 maggio si è ucciso Abou El Maati, 24enne italiano di famiglia egiziana. Quattro giorni dopo Giacomo. Per farla finita è ricorso al gas di un fornelletto da campo: morto per asfissia senza che il suo compagno di cella si accorgesse di nulla e potesse lanciare l’allarme. Era in attesa del trasferimento in una Rems, struttura sanitaria che accoglie gli autori di reato affetti da disturbi mentali.

"Nostro figlio si trovava in carcere ma non avrebbe dovuto starci perché aveva il diritto di essere curato – dice la mamma, Stefania Mazzei -. Perciò vogliamo raccontare la sua storia. Vogliamo che si sappia cos’è accaduto perché lui merita almeno un po’ di giustizia".

Da che età Giacomo ha iniziato a vivere con voi?

"Io e mio marito lo abbiamo adottato nel 2004, quando aveva tre anni. Era originario di San Pietroburgo e dal momento della sua nascita aveva vissuto in orfanatrofio perché la madre naturale non poteva occuparsene. Avevamo già un bimbo adottivo, di quattro anni più grande".

Come si comportava da bambino?

"Sembrava più piccolo della sua età, l’esperienza dell’orfanatrofio lo aveva provato. Era taciturno, fin troppo tranquillo. Poi, nell’arco di un anno, è diventato l’opposto: iperattivo, intollerante alle regole e ipersensibile. Erano le prime avvisaglie di un disturbo border-line, che purtroppo gli è stato diagnosticato con esattezza solo più tardi".

Poi cos’è successo?

"Quando aveva 12 anni, lui e il fratello sono scappati di casa. I servizi sociali hanno preso in carico la vicenda e i due ragazzi sono finiti per nove mesi in comunità. Da lì siamo entrati come in un tritacarne, con Giacomo che entrava e usciva dalle comunità. Dopo la seconda media ha abbandonato la scuola. Poi i primi approcci con gli stupefacenti. E le crisi legate alla sua patologia. Cercavamo di creargli delle motivazioni, ma lui si sentiva inadeguato".

Cos’altro?

"Ha iniziato a frequentare ragazzi a loro volta con disagio, a commettere piccoli reati. Nel 2018, a causa di un motorino rubato, è finito al Beccaria".

Lo scorso agosto l’arrivo a San Vittore, per un cellulare rubato.

"Le crisi di autolesionismo, delle quali già soffriva, si sono accentuate. Come quando si è tagliato le vene degli avambracci e dell’inguine, con le lamette. D’accordo con l’avvocato, abbiamo deciso di percorrere la strada della Rems. Era in lista d’attesa, ma non si conoscevano né i tempi e né modalità d’inserimento. Era come in un limbo".

Fino a quel terribile martedì 31 maggio.

"Giacomo si era affezionato a quel ragazzo egiziano, che si è tolto la vita pochi giorni prima di lui. Quando ha saputo della sua morte, è sprofondato nella sofferenza. Si è ucciso martedì, prima della mezzanotte, ma noi lo abbiamo saputo solo mercoledì mattina. All’inizio ero distrutta, adesso invece provo tanta rabbia".

Per cosa in particolare?

"Per un ragazzo pieno di fragilità che non ha ricevuto dalle istituzioni gli aiuti adeguati. Troppe volte noi familiari ci siamo ritrovati soli a gestire situazioni tra le più complicate. Completamente soli".

Che cosa l’amareggia di più?

"La mancanza di umanità. Quando Giacomo si faceva del male, nessuno dal carcere ci avvisava per tempo. E quel suicidio... possibile che non siano state prese precauzioni per evitare il peggio?".

Che ricordo conserverà di suo figlio?

"Quello di un ragazzo con una grande inventiva, anche se a volte il suo estro s’incanalava verso percorsi sbagliati. Dai porta-accendini fatti con gli stuzzicadenti alle macchinette per i tatuaggi realizzate con materiali di fortuna, aveva una grande manualità. Non c’era oggetto che non sapesse riparare. Giacomo voleva vivere a mille, anche negli eccessi. Come se sapesse di avere poco tempo a disposizione".