GABRIELE MORONI
Cronaca

Che squadrone col Gioânn: un grande cuore paterno sotto quella scorza ruvida

Il 19 dicembre 1992 moriva Gianni Brera, definire cosa sia stato e abbia rappresentato per il giornalismo è riduttivo. Il suo segno, indelebile, resta al Giorno

Gianni Brera

Gianni Brera

Como, 17 dicembre 2017 - Il 19 dicembre 1992 moriva Gianni Brera, definire cosa sia stato e abbia rappresentato per il giornalismo  è riduttivo. Il suo segno, indelebile, resta al Giorno, in tante sue cronache e nel cuore di quanti l’hanno conosciuto e lo ricorderanno  a Broni domani con “la paciada”.

Con l'eleganza A noncurante di un dandy nato nel 1930 si lamenta perché una gomma sgonfia gli ha impedito di inforcare la bicicletta e un giovane vigile pignolo ha bloccato la sua auto prima che si addentrasse in centro a Como. Gianni Clerici (foto in basso a destra), giornalista, scrittore, un passato glorioso di tennista e uno dei maggiori esperti del mondo di questo sport, inserito nel 2006 nella “Hall of fame”, secondo italiano dopo Nicola Pietrangeli. Con Pilade Del Buono ultimo superstite della grande redazione sportiva del “Giorno”. La redazione di Gianni Brera.

Gianni Clerici
Gianni Clerici

«Nel 1949, a Milano. Il mio carissimo amico Gigi Gianoli volle farmi conoscere il direttore della ‘Gazzetta dello Sport’: Brera, appunto, appena trentenne. Andammo nel suo studio, in un vecchio stabile in via Galilei. Una segretaria altrettanto vecchia ci annunciò che il direttore era a caccia. Me ne andai, offesissimo. In fondo non avevo ancora deciso la mia strada, ho capito che era quella della scrittura solo dopo due o tre libri. Un altro direttore mi avrebbe giudicato un ragazzino presuntuoso. La mattina dopo mia mamma mi annunciò: ‘Il direttore della ‘Gazzetta dello Sport’ al telefono’».

E dopo la “Gazzetta” venne “Il Giorno”.

«Brera fu addirittura licenziato dalla ‘Gazzetta’ per avere scritto non so cosa di non gradito alla proprietà, mi pare che avesse esaltato il grande mezzofondista Emil Zatopek, cecoslovacco e comunista. Brera creò un settimanale, ‘Sport giallo’. Lo faceva praticamente da solo, anch’io scrivevo tantissimo. Nel ’56 nacque ‘Il Giorno’. Ci andammo Brera, Mario Fossati, grande cantore di ciclismo ma anche della montagna, Pilade Del Buono, Gianmario Maletto, Giulio Signori e io».

Uno squadrone.

«Nemmeno il ‘Corrierone’ ne aveva uno uguale. Con una cosa in più: eravamo amici, veramente amici. Fra noi non esistevano invidie. La sera, dopo il lavoro, si andava a cena al ristorante ‘da Riccione’, dai fratelli Metalli. Come capo, Brera era sempre pronto a incoraggiare, ad aiutare con un consiglio. Anche paterno. Era così: una persona dolcissima sotto una scorza di ruvidezza».

Qual era il collante della vostra simbiosi?

«Da parte mia l’ammirazione, da parte sua non so. A volte si andava insieme a seguire le partite, lui la cronaca, io il ‘colore’. Le mie erano una sessantina di righe, i suoi pezzi erano molto più lunghi. Capitava che io dettassi le prime due cartelle mentre Brera continuava a scrivere».

Un gruppo sempre unito, coeso.

«Sempre. Una volta facemmo andare via uno che era diventato capo della nostra redazione. Non faceva parte del gruppo. Sono andato da Brera nel suo buen retiro di Bosisio Parini. ‘Senti, fa’ in modo di riprendere la guida della redazione’. ‘No, Gianni, mi ha risposto, fallo tu’. Sono volato a Milano a 100 all’ora e mi sono presentato da Italo Pietra, direttore del ‘Giorno’. ‘Quello che avete messo come capo non va bene’. Pietra mi ha risposto come Brera: ‘Fallo tu’. Sono stato capo della redazione sportiva per un giorno, prima di proporre Giulio Signori. L’altro l’ho incontrato anni dopo e mi ha ringraziato: era diventato inviato di un importante settimanale».

Con Brera scriveste anche delle commedie.

«Tre. La prima, ‘El general Pirla’ era una farsa in dialetto ispirata al ‘Miles gloriosus’ di Plauto. Un’altra commedia s’intitolava ‘L’amore è N.A.T.O’. La portammo a Walter Chiari. Gianni iniziò a leggere e Walter pareva interessato e divertito. A un certo punto si addormentò. Gianni non se ne accorse e continuò a leggere. Fu interrotto da una mia risata. Ce ne andammo lasciando Walter sprofondato nel sonno. La terza era una satira suggerita, in un certo senso, da due figli di Brera che erano due sessantottini. Era intitolata ‘Andiamo a Cuba’. Pensammo al Piccolo Teatro e mandammo il copione a Paolo Grassi. Non arrivò risposta. Provammo con Franco Parenti. Silenzio anche questa volta. A distanza di tempo, Parenti mi disse che la commedia lo aveva molto divertito, ma che era impossibile rappresentarla perché contraria alla linea del partito».

Clerici, perché uno che ha conosciuto Brera tanto bene non ha mai scritto una sua biografia?

«Proprio per questo motivo. Perché quando si conosce la vita di una persona fino al suo intimo è impossibile rivelarla. Impossibile e ingiusto».

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