
Gargoyle trafugato dal Duomo. Il gallerista ottiene l’assoluzione
Il Tribunale di Milano ha assolto il titolare di una prestigiosa casa d’arte nel capoluogo lombardo, con una sede anche a Pesaro, che era finito sotto processo per il caso di un doccione, di proprietà della Veneranda Fabbrica del Duomo, che si era staccato dalla cattedrale milanese prima del 1940.
Per il gallerista, accusato di ricettazione ed esportazione illecita di beni culturali, il pm Francesca Crupi aveva chiesto la condanna a un anno e mezzo di reclusione e 500 euro di multa.
Secondo la ricostruzione di inquirenti e investigatori, il dragone alato sarebbe stato trafugato dopo il distacco dalla cattedrale e sparito in seguito ai bombardamenti della seconda guerra mondiale.
Ma tra l’aprile del 2018 e il febbraio del 2019 era riapparso, quando il mercante d’arte, dopo averlo acquistato dal suo fornitore di fiducia, aveva presentato "all’ufficio esportazioni di Verona due richieste di rilascio di attestato di libera circolazione" contenenti, secondo l’accusa, "dichiarazioni non veritiere". Una volta ottenuto il certificato, il gargoyle era stato spedito nei Paesi Bassi, dove il mercante d’arte 79enne aveva provato a venderlo oppure a esporlo in una fiera antiquaria della zona. Il gallerista, il cui difensore Domenico Costantini aveva chiesto l’assoluzione, ha sempre sostenuto di aver agito "in perfetta buona fede" e di essere addirittura stato lui a scoprire che si trattava di marmo di Candoglia del Duomo di Milano soltanto quando il doccione si trovava già a Maastricht da un restauratore che lo aveva pulito.
Il giudice della seconda sezione penale del Tribunale di Milano, al termine del processo di primo grado, ha assolto quindi il gallerista dall’accusa di ricettazione "perché il fatto non costituisce reato" e da quella di esportazione illecita "perché il fatto non sussiste".
In merito all’occultamento del bene, invece, ha ritenuto che non vi fossero prove sufficienti a dimostrarlo. Le motivazioni della sentenza saranno depositate entro 90 giorni.
Federica Zaninboni