Ergastolo, in Lombardia 106 fine pena mai: salta l’equivoco del "liberi tutti"

Dibattito sulla sentenza europea: "Nessun automatismo, sceglie il giudice". Ora tocca alla Consulta

Polizia penitenziaria

Polizia penitenziaria

Milano, 21 ottobre  2019 - Fine pena, forse. In Lombardia sono 106 i detenuti a vita che in queste ore sperano. Dopo la Corte europea dei diritti dell’uomo che ne ha bocciato gli automatismi, domani tocca alla Corte costituzionale pronunciarsi sulla legittimità dell’ergastolo ostativo - il “fine pena mai” - il carcere a vita che non ammette permessi né sconti né rieducazione possibile a meno che il condannato, per lo più mafioso o ’ndranghetista, scelga di collaborare con la giustizia. È un dibattito incandescente quello seguito alla decisione della Corte europea e che ora precede la sentenza della Consulta. Da una parte chi, in politica e nella magistratura, sostiene che dare anche a chi non si “penta” la speranza di uscire un giorno di cella (purché un giudice lo consenta) compromette gravemente il contrasto alla criminalità organizzata. Dall’altro, chi ritiene invece che l’automatismo di legare ogni possibile beneficio alla sola collaborazione con la giustizia non sia in linea con la Costituzione. Nel mezzo, chi è convinto che il nodo non si possa tagliare con l’accetta e riflette sulle mille sfaccettature della questione.

In Lombardia , più o meno come per il totale nazionale, la percentuale di ergastolani ostativi sfiora i 2/3 di tutti i condannati al carcere a vita, che in Regione sono al momento 168. I 106 “ostatitivi” sono per lo più boss ed esponenti di spicco della criminalità organizzata, e comunque tutti detenuti nel carcere di Opera. Per una piccola quota di costoro, però, la collaborazione è riconosciuta impossibile: perché non c’è più nessuno che possano chiamare in causa o perché non hanno mai avuto un ruolo che consenta loro di farlo. Per quanto “ostativi”, questi ergastolani possono dunque usufruire di permessi e di sconti. Il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, già nella Direzione nazionale antimafia e ora cordinatore del settore esecuzione penale della Procura, rifiuta il conflitto ideologico «tra i sostenitori dei principi costituzionali della pena ed i sostenitori della necessaria efficacia» dell’azione di contrasto a mafie e terrorismo.

«Chi pratica il contrasto all’agire terroristico e mafioso – dice – ha ovviamente il massimo rispetto delle regole costituzionali». E quindi va valutato «se le aperture all’ergastolo ostativo, rappresentate dalla collaborazione, e dalla collaborazione impossibile ed inesigibile, siano o meno idonee a garantire il rispetto della funzione rieducativa della pena», a fronte di «fenomeni criminali pericolosissimi e consolidati». Romanelli ritiene di sì, anche se - aggiunge - «senza far cadere le caratteristiche di fondo del sistema, forse è ipotizzabile un qualche ampliamento della collaborazione “impossibile”».

E proprio il caso degli ergastolani ostativi con collaborazione “impossibile”, quelli «che perciò stanno usufruendo dei benefici di legge e non hanno mai dato problemi», è l’esempio citato dalla presidente del tribunale di sorveglianza Giovanna Di Rosa, sul cui ufficio, nel caso di abolizione degli automatisti, ricadrà la responsabilità di valutare una per una le future richieste dei boss rinchiusi a vita. «Ma credo che l’allarme generale – osserva Di Rosa – sia focalizzato più che altro su una strategia di prevenzione generale che finora ha avuto successo anche grazie alla norma sull’ergastolo ostativo e che però potrebbe arricchirsi anche di condotte risarcitorie e riparative».

Chi non ha molti dubbi è il capo dell’Antimafia milanese Alessandra Dolci: «Dalla criminalità mafiosa - sostiene - si esce solo collaborando con l’autorità giudiziaria o con la morte. La riabilitazione senza pentimento è solo una “bella illusione”. Non ho memoria di esempi positivi». Sull’altro fronte , l’avvocato penalista Valentina Alberta, che ha seguito progetti carcerari con il coinvolgimento di ergastolani “ostativi”, respinge l’argomento di chi sostiene che la formula attuale della norma sia quella voluta da Giovanni Falcone. «La versione originaria - ricorda - prevedeva il divieto di benefici a meno che non fossero acquisiti elementi idonei ad escludere collegamenti attuali con la criminalità organizzata. Prova definita “diabolica”, ma di certo non obbligo di collaborazione».

A suo modo categorico è il Garante dei detenuti della Lombardia, Carlo Lio. «Vengo da una formazione socialista – premette – e la mia convinzione, che ritrovo nella Carta costituzionale, è che anche l’autore del delitto peggiore debba poter sperare che una volta scontata la sua pena gli venga offerta una seconda possibilità». Guido Salvini, tra i giudici di tribunale con maggiore esperienza, ha una posizione più sfumata. «Non sarà forse necessario esigere una collaborazione processuale – osserva – ma qualcosa lo Stato ha il diritto di pretendere. Quantomeno, che il detenuto rigetti in modo convincente le scelte passate, dica pubblicamente “non fate come me” , non seguite la mia strada. Serve almeno una resa, pubblica e inequivocabile».  

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