
Marco Alessandrini
Milano, 20 luglio 2018 - Parla del padre perduto quando aveva solo otto anni come di un padre amico e, oggi, di un fratello minore. Non ha mai conosciuto l’odio, lo paragona a una tenia insidiosa e corrosiva, ma a differenza di altri figli di vittime non si è mai sentito di conoscere di persona i terroristi che gli hanno strappato la figura paterna. Marco Alessandrini è l’unico figlio del magistrato assassinato. Avvocato civilista, vive a Pescara, dove è sindaco del Pd dal 2014.
Avvocato Alessadrini, cos’è un padre per chi lo ha perduto così tragicamente e prematuramente?
"Mi è mancato il tempo per capirlo. L’ho trovato dopo nei racconti dei familiari, degli amici. Avevo un padre amico. Lo chiamavo Emilio, come lo chiamo adesso. Oggi è un fratello ormai minore. Quando è morto aveva 36 anni, io ne ho 47. Sono ampiamente il fratello maggiore. Chiunque si trovi ad affrontare un lutto così vicino, cerca di farne tesoro. ‘Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me’, scrive Kant. Il mio cielo stellato e la mia legge morale sono stati Emilio".
Ricorda il giorno della sua morte?
"Lo ricordo benissimo. Un lunedì. Facevo la terza elementare. Come spesso mi capitava, ero in casa di un mio compagno di scuola, che abitava in una strada parallela a quella dove stavamo noi, viale Montenero. Vennero i mie nonni materni, arrivati da Pescara. A casa capii. Ricordo la casa piena di gente. I funerali in Duomo. Difficile dimenticare quella mattinata in Duomo".
Alcuni figli di vittime del terrorismo ne hanno incontrato gli assassini...
"Non sono pronto. Io credo nelle istituzioni, altrimenti non farei questo mestiere complicato che è il sindaco. Conosco il fine educativo della pena, secondo il dettato costituzionale. Ma ci sono problematiche morali che superano le leggi degli uomini e i codici. Nel corso di questi anni ho incontrato altri che hanno condiviso la mia esperienza. Un nome su tutti: Agnese Moro, una grande persona. Ho molto rispetto per un percorso di giustizia riparativa. Ma su questo, personalmente, non ce la faccio".
Ha provato odio o qualcosa di simile all’odio?
"L’odio è una brutta bestia. Ti mangia dentro come un verme solitario. L’odio non mi piace. Incattivisce ulteriormente. Viviamo in un Paese che è molto cambiato, ma l’odio non aiuta. Anche perché sono sindaco, percepisco la paura, l’incertezza sul futuro, i genitori che sanno che i loro figli avranno meno chances di quelle che hanno avuto loro. Tutto questo favorisce una rabbia sociale. Non ci sono ricette. Solo l’impegno giorno per giorno, metro per metro".
Chi era Emilio Alessandrini?
"‘Sarà per quella faccia da mite, da primo della classe che ci lascia copiare i compiti’, scrisse Walter Tobagi. E andava avanti scrivendo che ‘rappresentava quella fascia di giudici progressisti, ma intransigenti, né falchi chiacchieroni, né colombe arrendevoli’. È il ritratto di Emilio".
Cos’ha lasciato, la lezione più importane?
"Ho conosciuto tante storie di eroi, diciamo così, per caso, che hanno fatto il loro dovere. Fare il proprio dovere nell’ambito in cui si opera. Il 24 gennaio 1979, cinque giorni prima di Emilio, venne ammazzato Guido Rossa, l’operaio che aveva denunciato le infiltrazioni terroristiche all’Italsider di Genova. Luigi Marangoni, direttore sanitario del Policlinico di Milano. Non pensavano di fare niente di eccezionale. Ma lo facevano. Come lo faceva Emilio".