
di Roberta Rampini
"In quel posto non ci voglio più andare". Paola (nome di fantasia) è una delle ospiti della comunità di Cesate sotto inchiesta per maltrattamenti, punizioni corporali e abusi che sarebbero andati avanti da anni. Il 26 febbraio 2021 la donna, con grave ritardo mentale, viene trasferita in una Rsa per il suo decadimento cognitivo e alcuni problemi sanitari. Qualche giorno dopo viene ascoltata dalla polizia giudiziaria, alla presenza di uno psicologo: ricostruisce gli orrori che ha sopportato, ha chiaro che non vuole più tornare in quella struttura e lo ribadisce di continuo. Le sette misure cautelari eseguite dai carabinieri hanno posto fine all’incubo per nove disabili psichici, ma le indagini continuano. Ai domiciliari sono finiti la titolare della struttura Nadia De Fanti, 68 anni, e Francesco Castoldi, 25, figlio dell’ex socio (ora defunto) della cooperativa. Misure cautelari anche per i cinque operatori che lavoravano all’interno della comunità. Nelle chat i dipendenti parlano spesso di Paola, "lei non vede l’ora di andarsene da qui, si è spenta per colpa loro, la trattano in modo brusco, docce, acqua fredda e digiuno, se trova un nuovo posto starà al calduccio, con pasti regolari".
La necessità di continuare le indagini è dovuta al fatto che le telecamere installate dalla polizia giudiziaria nella comunità il 4 marzo sono state scoperte pochi giorni dopo dall’educatore. È quanto emerge da una delle conversazioni telefoniche tra due dipendenti della comunità: "Ha trovato la telecamera in sala tv e ha organizzato una riunione segreta con tutti gli operatori, nella veranda del ristorante (situato accanto alla comunità e di proprietà della figlia della De Fanti, ndr) ha ordinato a tutti che non usassero più i bastoni, di non far più saltare i pasti agli ospiti e di interrompere i comportamenti aggressivi tenuti con i ragazzi. Lei (la De Fanti) si è rivolta ad un avvocato per chiedere informazioni".
Tra le agghiaccianti violenze documentate c’è quello che accade ad un ospite, in molte occasioni si presenta a tavola con il bastone legato dietro alla schiena e la bandana e la bandana nera sulla fronte, è visibilmente dolorante, ma viene insultato "stai mangiando come un maiale, tirati su dritto". Nell’ordinanza c’è l’esposto della mamma di una ragazza nel 2005 allontanata dalla comunità. Si fa riferimento a un ragazzo, "che per 4 anni era stato obbligato a tenere il bastone nella schiena mentre mangiava".
Si cita la segnalazione fatta da un educatore all’allora Asl perché "una persona non qualificata aveva inserito un catetere vescicale ad un ospite". Un quadro indiziario grave, interrogativi senza risposte. Perché le segnalazioni fatte in passate non sono mai state prese in considerazione? Amministratori di sostegno dei disabili, enti, medici, psichiatri e psicologi, che avevano rapporti di lavoro con la comunità non si sono mai accorti di quello che succedeva?
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