SIMONA BALLATORE
Cronaca

Diego Dalla Palma e Milano: "Così colorerei tutta la città"

Curatore d'immagine, conduttore televisivo e narratore, è approdato nel capoluogo lombardo a 17 anni

CREATIVO Diego Dalla Palma curatore di immagine, conduttore televisivo e narratore ha appena aperto «Diegoperte» con spazi per giovani talenti (Brunenghi)

Milano, 12 novembre 2017 - «Milano è una città dalle sfumature pastello, che si stagliano sul grigiore». Sogna una città più colorata Diego Dalla Palma, curatore di immagine, conduttore televisivo e narratore. Lo sogna da quando ha messo la prima volta piede in città, aveva 17 anni.

Il primo impatto?

«Sgomento. La mia realtà era l’altopiano di Asiago, venivo da un paesino, Enego. Ho studiato a Venezia ma in collegio, sono sempre stato molto nascosto, restio a socializzare. Mi sono trovato a Milano in una giornata di fine settembre, con la piazza invasa dalla nebbia. Non sapevo dove andare, avevo dentro di me solo sogni, mi sono reso conto appena uscito dalla stazione centrale delle difficoltà che avrei avuto, un po’ per i volumi, per l’atmosfera, per la confusione che non mi apparteneva».

Perché ha scelto Milano? Cosa la portava qui?

«La sfida. Volevo fare il costumista in televisione. Non avevo lavoro, sono andato al pensionato Belloni, in via Fulvio Tesi e lì ho soggiornato una settimana: in otto in una camerona, ero fuori luogo, tre erano dei bulli che penalizzavamo il mio modo di essere, la mia malinconia. Dopo una settimana con pochissimi soldi in tasca me ne sono andato, pensavo di dormire su una panchina».

Quando c’è stata la svolta?

«Prima di Natale: stavo per tornare da mia madre sconfitto, lei aveva grandi aspettative su di me, ma non ce la facevo più. Andai da Maud Strudthoff, che dirigeva la sezione costumi, dopo il terzo rifiuto. Provò pietà, mi diede una possibilità, è stata straordinaria. Lì è partito il mio lavoro come costumista, per 10 anni. Ho lavorato al Lirico, ai Filodrammatici, per Strehler come collaboratore, ma non riuscivo mai a stare tranquillo, economicamente. Il 13 marzo del 1978 aprii il mio primo negozio di cosmetici a Brera, in via Madonnina 13, e arrivò il boom con i miei ombretti colorati, i rossetti gialli, azzurri. Avevo superato i confini dell’estro».

Qual è il legame con la città?

«A Brera c’erano i sogni, la follia, l’originalità, l’imprevedibilità. C’erano le prostitute che nelle notti di nebbia ti portavano la cioccolata. Le persone avevano davvero il coeur in man: il ladro aiutava la persona perbene e la persona perbene aiutava il ladro. Oggi è la città dell’orologio in man e della miseria dell’happy hour. Sono innamorato della città, ma mi sono disinnamorato di come la si vive, come tutti i milanesi».

Cosa si salva?

«La Milano del design è straordinaria, ma deve essere meno snob. La Milano della moda, che ha la metastasi dello snobismo, deve riscoprire la democraticità, come insegnava Moschino, che è stato straordinario. Si salvano buona parte del sistema sanitario, la musica e il teatro».

I suoi luoghi del cuore?

«L’Elfo Puccini, il Franco Parenti, il Piccolo Strehler. Nelle vecchie trattorie si trovano testimonianze di una storia che può essere reinventata. Adoro l’etnico, prendo un sacco di spunti attorno a Porta Venezia».

Milano di che colore è?

«Era grigia, con tutti i colori della tavolozza, adesso è grigia con colori pastello. C’è una piccola torre colorata accanto alla stazione Garibaldi. Io avrei fatto tutta Milano di quei colori e sarebbe accorso il mondo. La vita è troppo breve per vivere di grigiore, è la follia che fa la differenza».

Adesso ha aperto una finestra sui social, Diegoperte. “Spunti e sputi” sullo stile?

«Voglio esprimermi attraverso il mio blog, tirando fuori quello che posso immaginarmi, senza filtri, vivere di creatività, anticonvenzionalità, fantasia e coinvolgere nuovi talenti. Non vogliamo essere influncer, vogliamo influenzale solo l’umore».

L’augurio alla sua città?

«Che il destino e gli dei regalino a Milano il dono della consapevolezza e dell’autenticità».