Frontalieri del Covid: fuga in Svizzera per lavorare

In aumento i milanesi attirati oltreconfine dalla fame di medici e infermieri: "Stipendio doppio ma per far carriera barriere verso gli italiani"

Un reparto Covid

Un reparto Covid

Milano, 11 novembre 2020 -  Lo chiamano il treno dei frontalieri, che dalla stazione di Milano Garibaldi porta oltreconfine, a Lugano e Bellinzona. E sono sempre di più i milanesi che salgono in carrozza, attirati dagli stipendi in ospedali e cliniche del Canton Ticino in cerca di medici e infermieri lombardi e in aziende che fanno scouting al Politecnico reclutando ingegneri di talento. Lavorano in Svizzera ma abitano a Milano o nell’hinterland dove, pur in una delle zone più care d’Italia, il costo della vita è inferiore.

La fuga è proseguita anche con l’emergenza Covid, con la stima di circa seimila frontalieri di vari settori che vivono tra la Città metropolitana e la Brianza. Fino al 2006 erano zero, perché il lavoro in Svizzera era consentito solo agli italiani residenti nelle province di confine, con Varese e Como in testa. Dallo sblocco del 2006 è iniziata nel Milanese una fuga di cervelli più che di braccia, con la Svizzera che anno dopo anno attira sempre più personale qualificato per ospedali, cliniche, strutture assistenziali e aziende. Il numero di frontalieri lombardi, secondo i i dati dell’istituto di statistica ticinese (Ustat), è cresciuto anche nell’anno segnato dall’emergenza Covid, con un +1.1 nel terzo trimestre del 2020. Una crescita sopra la media nel settore della sanità e dell’assistenza sociale (+2.3% su base annua), che si traduce nella fuga di medici, infermieri e operatori socio sanitari da una regione che con la pandemia è alla perenne ricerca di queste figure professionali, reclutate in altre zone d’Italia. Anche in Svizzera è aumentata la domanda, e questo fa da calamita per i lombardi.

Solo nel settore della sanità sono 4.300 i frontalieri lombardi su un totale di oltre 70mila di tutti i settori, secondo i dati analizzati da Roberto Cattaneo della Uil Fontalieri Como e dalla Fondazione Anna Kuliscioff di Milano. Una rotta verso Nord seguita dopo la laurea anche da Fabio, medico 30enne che ora lavora al Policlinico di Milano e si sta specializzando in oculistica. Per un anno ha lavorato in un ospedale a Montreux, cittadina sul lago di Ginevra, nella Svizzera francese. "Mi ha attirato anche il desiderio di fare un’esperienza all’estero e acquisire nuove competenze – spiega – sul lato economico in Italia come specializzando avrei preso 1.700 euro netti mentre in Svizzera guadagnavo circa 4.000 franchi al mese. Il problema è che abitavo in Svizzera e lì il costo della vita è molto alto, quindi una vera convenienza economica ce l’hanno i frontalieri".

Poi c’è il problema, per gli stranieri, di "passare l’imbuto", cioè entrare in un grande ospedale universitario che fa da volano per la carriera. "Nelle selezioni tendono a dare la precedenza agli svizzeri – prosegue - e un italiano rischia di metterci il doppio, fino a 15 anni di attesa. Anche per questo ho deciso di tornare". Milano esporta anche moltissimi ingegneri. "La gran parte dei frontalieri milanesi e brianzoli sono laureati nelle discipline scientifiche – spiega Cattaneo – hanno qualche anno di esperienza lavorativa in Italia e contenuti professionali di alto livello. Quando vengono assunti da aziende svizzere vedono raddoppiato il loro reddito, su cui poi pagheranno l’Irpef italiana". Professionisti reclutati al Politecnico e nelle altre università. Formati a Milano, ma spinti in svizzera da stipendi e opportunità.  

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