
Le sostenitrici Cadmi durante la manifestazione del novembre scorso in Duomo
Milano, 12 maggio 2025 – Milano ha fatto da casa al primo centro antiviolenza in Italia che in quasi quarant’anni ha affiancato oltre 37mila donne e ospitato 800 vittime di violenza nelle case rifugio. La Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano (Cadmi) accoglie oggi vittime di violenza sempre più giovani, che lottano per uscire dall’incubo.
“Cadmi ha dato voce per primo alle vittime di violenza che fino a quel momento non avevano avuto il coraggio di parlare e confrontarsi”, afferma Manuela Ulivi, avvocata civilista e presidente di Cadmi.
Cadmi come aiuta le donne?
“C’è un primo colloquio in cui si ascolta la storia della donna, si incontrano le nostre legali e lì si decide se denunciare, si dà sostegno psicologico per avviare il percorso che è ancora ad ostacoli”.
Che tipo di donne si rivolgono a voi oggi?
“Sono sempre più informate e più decise a muoversi. Nonostante le leggi che abbiamo però, c’è ancora il problema del riconoscimento della violenza senza declinarlo nel solo conflitto, un problema culturale che incide nella difficoltà di applicare le leggi nel modo giusto”.
Oggi abbiamo qualche legge in più, partendo dalla 154 del 2001 che ha portato l’allontanamento dalla casa familiare, allo stalking del 2009, fino al Codice rosso del 2019. Cosa ha funzionato?
“Abbiamo lavorato con le parlamentari per la legge 154 del 2001 e nel 2009 raccogliendo le storie delle donne che incontravamo. Poi sono arrivate leggi come il Codice rosso che non partivano più da esigenze delle donne. Giusto agire subito per mettere le donne in sicurezza ma non vediamo misure cautelari”.
C’è sempre per i centri antiviolenza un problema di fondi?
“Sì perché non c’è stata una politica nazionale che li distribuiva, solo dal 2013 c’è una legge che li prevede. Se non avessimo i finanziamenti privati, il 5x1000, ma solo il sostegno pubblico non andremmo avanti. Anche se il Comune di Milano ci ha sempre sostenuto, uno dei pochi virtuosi in Italia che ha nel suo bilancio autonomo una voce per il tema della violenza”.
Molte di queste donne sono madri: cosa fare per loro dal punto di vista legislativo?
“Si dovrebbe togliere il concetto della bigenitorialità quando c’è una situazione di violenza perché così le donne sono costrette ad avere contatti con il violento per i figli, che diventano oggetto di ricatto. La riforma Catarbia ha un po’ messo in luce questo, ha istituito un percorso processuale diverso nei casi di violenza”.
Quale tipo di violenza incide di più sulle madri?
“Quella psicologica ed economica che sono le più difficili da vedere, la seconda soprattutto per il timore della perdita dei figli, la paura primaria di tutte le donne”.
Bene quindi fare le leggi ma bisogna pensare al prima e al dopo?
“Noi sentiamo sempre che bisogna denunciare, ma bisogna capire invece come prevenire la violenza. Si dovrebbe estirpare il fenomeno lavorando molto sulla cultura in tenera età”.