All’Istituto dei tumori cercare un senso è parte della cura

Uno psicologo e il cappellano raccontano l’importanza della spiritualità per i pazienti. Con il vescovo, e una prefazione del Papa

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di Giulia Bonezzi

La mattina don Tullio Proserpio esce di casa, al nono piano, blocco E dell’Istituto nazionale dei tumori, e inizia il giro dei reparti dalla Pediatria. Da 19 anni è il cappellano dell’Istituto, è arrivato su proposta del cardinale Carlo Maria Martini, "e ho scoperto un nuovo mondo". Fatto, più che di comunioni al letto e benedizioni, di incontri, con i pazienti, i loro cari e il personale, ché in via Venezian non sono solo i malati ad aver bisogno.

Così don Tullio si è trasformato in "una presenza abituale", confrontato anche con pregiudizi, ad esempio "che la Chiesa ami la sofferenza, se sto al Vangelo non è così"; e ha capito "che è possibile lavorare insieme". L’hanno capito anche i medici, che con lui hanno firmato articoli scientifici, e ora un libro: “La spiritualità nella cura”, pubblicato dalle Edizioni San Paolo, scritto da don Proserpio e dal professor Carlo Alfredo Clerici, psicologo clinico della Pediatria dell’Int e della Statale, presentato ieri con l’arcivescovo Mario Delpini. La prefazione è di Papa Francesco, che parla di "quei ponti necessari a non dimenticare l’umano che ci caratterizza e a individuare sempre nuovi, spesso imprevisti percorsi". "La letteratura scientifica riconosce un ruolo centrale alla soggettività dei pazienti nel processo di cura – ricorda lo psicologo Clerici –. E il significato personale attribuito alla malattia è un elemento fondamentale per affrontarla". Tanto che si studiano procedure di supporto ai bisogni spirituali dei pazienti coi parametri delle certificazioni sanitarie. La spiritualità, spiega don Tullio, "è ciò che dà un significato alla propria vita. Per alcuni è di carattere religioso, trascendente, per altri no". Lui è lì per tutti, in qualunque dio credano, anche nessuno: una volta ha parlato al funerale laico di un paziente che gliel’aveva chiesto, col suo colletto da prete accanto al feretro avvolto in una bandiera anarchica. È lì per tutti, ma non a dispensare risposte: "Se si è in contatto con la realtà non si può essere presuntuosi. Se rispondo con un concetto teorico alla ragazza o al bambino che chiedono “Perché mi sono ammalato?”, al papà il cui figlio è morto, non entro in sintonia con l’altro. Allora mi metto in ascolto, se l’ascolto è autentico spesso una persona riesce a darsi risposte. Ricostruire la propria dimensione spirituale può aiutare, anche se non è mai un’equazione, perché ci sono di mezzo le persone. Ma non le lasci sole, le accompagni".

Una volta una caposala ha domandato a don Tullio quale fosse la differenza tra lui e uno psicologo. "Nelle cure palliative si considera che l’uomo è costituito da quattro dimensioni, fisica, sociale, psicologica e spirituale. Ma non a compartimenti stagni, è un tutt’uno; così se un paziente s’interroga sul senso della vita può essere aiutato dal cappellano, ma non esclusivamente da lui; anche lo psicologo, anche il medico devono essere sensibili a questa domanda. Si lavora insieme, ciascuno con la propria visione; visioni diverse, ma mai contrapposte".

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