"Io, sopravvissuto alle Brigate rosse e ai terroristi di Al Fatah" / FOTO

Virginio Carati, milanese, 72 anni, fu ferito nel settembre 1986 a Karachi. Il dirottamento finì nel sangue

Virginio Carati oggi ha 72 anni

Virginio Carati oggi ha 72 anni

Milano, 10 settembre 2016 - "Terrore a Oriente" e «Massacro sul jumbo» titolò Il Giorno. Forse non tutti lo ricordano, ma 30 anni fa 21 italiani, quasi tutti milanesi e varesini, furono tenuti in ostaggio da terroristi palestinesi di Al Fatah per 16 ore su un Boeing 747 della Pan Am sulla linea Mumbai-Francoforte. Un tentativo di dirottamento sulla pista dell’aeroporto di Karachi, nord Pakistan, che finì nel sangue. Le 20 vittime (su 345 passeggeri) furono indiane, pachistane, americane. Ma Virginio Carati, ingegnere allora 42enne, oggi titolare di una ditta di zona Certosa che costruisce resistenze elettriche, fu ferito al piede. "E ricordo ogni momento di quella notte".

Riavvolgiamo il nastro.

"Rientravo da una vacanza nel Ladakh, nord dell’India, con la mia compagna di allora, inglese. Scalo per il rifornimento a Karachi, salirono in quattro con le divise della polizia pachistana, armati. Pensavamo a un controllo. Ma ci fecero subito spostare sul fondo, puntandoci mitra e pistole addosso. I piloti abbandonarono la cabina dai finestrini. Una direttiva di Reagan, in caso di atti di terrorismo".

Panico?

2Non tanto. Ho sempre avuto sangue freddo. Nel 1975 ero stato sequestrato dalle Brigate rosse. Lavoravo alla Fondazione Idi, Istituto dirigenti italiani, fecero irruzione, ci chiusero e incatenarono in bagno per rovistare in archivio".

Cosa voleva Al Fatah?

"Dirottare il Boeing su Cipro. Non parlavano inglese, per andare in bagno alzavi la mano. Poi a un certo punto si spensero la luce e l’aria condizionata. Fu il caos".

Cosa successe?

"I terroristi pensarono a un assalto delle teste di cuoio. Cominciarono a sparare all’impazzata, lanciarono una bomba a mano che rimbalzò sulla cappelliera e ci venne addosso. Io fui ferito al piede. Ci furono morti. La hostess aprì le porte d’emergenza. Mi catapultai sullo scivolo trascinando la mia ragazza, colpita all’anca e alla gamba. Centinaia di metri sulla pista col piede rotto. Non c’erano ambulanze. Ci caricarono su un’Ape fino all’ospedale civile di Karachi. Fui dato per disperso dai giornali, mi trovarono gli americani e mi trasferirono all’ospedale militare di Ramstein, in Germania. La mia compagna fu operata. Male. Perse la testa del femore. Ha scritto un libro: “Dancing in the sea’’, ballando nel mare. Il titolo l’ho suggerito io. Deve camminare con le stampelle e solo nel mare riesce a muoversi libera".

Faceste causa?

"Alla Pan Am. Patteggiai per 69 milioni di lire, girati a lei".

Vola ancora?

"Certo. Mi piace girare il mondo. Anzi, ho preso il brevetto di pilota. Sono socio di Aeroclub, giro il mondo quando posso. E poi volevo farmi un’idea di cos’era successo e, confrontandomi con un ufficiale in pensione e con tecnici dell’Alitalia, ho capito la causa: la luce si spense per un guasto alla turbina di alimentazione. La Pan Am era in amministrazione controllata e non aveva fatto manutenzione su quell’aereo. Due anni dopo ci fu l’attentato di Lockerbie. E andò verso il fallimento. L’unica conseguenza negativa è che da allora mi spaventa la ressa, l’affollamento, il timore di non avere vie di fuga. E oggi ce n’è di gente fuori di testa".

Che idea si è fatto sul dirottamento a 30 anni di distanza?

"I dirottatori furono presi, condannati a morte in Pachistan, rilasciati. Ho cercato i documenti del processo ma sono finiti sotto segreto di Stato".

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