Codogno, il tampone e l’incredulità. Annalisa Malara ricorda: "Mollare? Ci ho pensato"

L’intervista all’anestesista che si occupò del “Paziente 1” della pandemia

Annalisa Malara, 40 anni, anestesista ora in forza all’ospedale San Matteo di Pavia

Annalisa Malara, 40 anni, anestesista ora in forza all’ospedale San Matteo di Pavia

Due anni dopo. Il 20 febbraio 2020 è il giorno della scoperta del primo caso di Covid in Europa. Quel virus sconosciuto, che fino a quel momento si pensava lontanissimo, circoscritto a Wuhan in Cina, per poi scoprire con amaro stupore che già era ben presente e diffuso in un fazzoletto di terra nel sud della Lombardia. Decisiva la diagnosi all’ospedale di Codogno quando al 38enne Mattia Maestri, un uomo in salute, sportivo, che stava molto male per una strana polmonite bilaterale non curabile con i soliti antibiotici, venne effettuato un tampone molecolare grazie al coraggio e all’intuizione della dottoressa Laura Ricevuti e dell’anestesista Annalisa Malara. Forzarono i protocolli vigenti in quel momento. E fu l’inizio di tutto, con la prima zona rossa creata intorno a Codogno e altri dieci Comuni il 23 febbraio 2020 con l’arrivo dei militari a presidiare i confini, le strade deserte con solo le ambulanze in giro. Ne seguirono settimane di feroce battaglia, giorni segnati dalla morte di migliaia di persone, nel Lodigiano e in tutta Italia. Intanto ieri, proprio all’ospedale di Codogno, è stato chiuso il reparto Covid (riaperto dal 10 gennaio a seguito dell’incremento del numero di malati). Sarà sanificato e riaprirà domani come reparto normale. «Speriamo si tratti dell’ultima, definitiva chiusura» dice Paolo Bernocchi direttore sanitario dell’Asst di Lodi. 

Codogno (Lodi) - Il suo nome sarà per sempre legato all’inizio della pandemia. Ne è ben consapevole Annalisa Malara, 40 anni, il medico anestesista dell’ospedale di Codogno che "scoprì" il "paziente 1" Mattia Maestri, il primo caso certificato di Covid in Europa. Nominata Cavaliere al merito dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, Malara, che a inizio 2021 ha lasciato l’ospedale lodigiano per continuare la sua carriera al San Matteo di Pavia, non dimenticherà quei giorni.

Dottoressa Malara, cosa ricorda del 20 febbraio 2020? "Tutto è ancora chiaro nella mia mente. Ricordo che la giornata era partita come qualsiasi altra giornata, poi la situazione era cambiata con l’esito del tampone. Mi sono ritrovata nell’occhio del ciclone, quando di fatto nessuno se lo aspettava".

Le capita di ripensarci? "Sì, spesso. È l’inizio di una situazione drammatica che ancora oggi stiamo gestendo. Ne parlo spesso con i miei colleghi del San Matteo. Ho raccontato a tutti quello che è stato per noi che lavoravamo negli ospedali dell’Asst di Lodi. Quello che abbiamo vissuto noi a Lodi e Codogno non l’ha vissuto nessuno. Sono stati momenti drammatici, dove ci siamo trovati davanti il virus senza avere un’organizzazione ben definita".

Si sente ancora con il paziente 1 di Codogno? "Mi capita di sentire Mattia e la sua famiglia per gli auguri durante le feste. Ma sono in contatto anche con altri ex pazienti. Tutti hanno segnato la mia vita personale e quella della mia carriera".

Tanti colleghi, sia medici che infermieri, soffrono oggi di burnout. Alcuni hanno anche cambiato vita. Che ne pensa? "Capisco lo stato d’animo di tanti colleghi. So quanto sia stato difficile fare quello che abbiamo fatto nei momenti più drammatici della pandemia. Anche a me, a un certo punto, sarebbe piaciuto vestire i panni di qualcun altro. Guardare alla televisione quello che stava accadendo negli ospedali. Poi ci ho ripensato".

Da un anno è entrata nell’equipe del San Matteo di Pavia. Come si trova? "Rispetto all’ospedale di Lodi al San Matteo c’è un’attività molto più specialistica. Non nascondo che all’inizio ho avuto qualche difficoltà, ma pian piano sono migliorata. Ad aiutarmi tanti colleghi giovani, quasi tutti mi conoscevano già. Quasi fossi la “Vip“ del gruppo (ride, ndr )".

Crede che sia migliorata la percezione dell’opinione pubblica sul ruolo dei medici? "Noi medici siamo stati definiti eroi, ma questa è la realtà di chi ogni giorno lavora con senso del dovere e abnegazione nella sanità. Spero però che questa vicenda serva a tenere acceso un faro costante su chi lavora negli ospedali. I sacrifici personali ci sono sempre stati e con l’emergenza si sono solo amplificati".