Merate (Lecco) – È stata trasferita dall’ospedale di Merate a quello di Lecco senza essere neppure sottoposta a un’ecografia per accertare se il cuoricino della creatura alla 34esima settimana di gestazione che portava in grembo fosse ancora vivo. Dopo la chiusura a maggio del Punto nascite del San Leopoldo Mandic, non ci sono né ginecologi né ostetriche di guardia o reperibili che avrebbero potuto assistere la paziente di 33 anni che stava per diventare mamma e svolgere almeno gli accertamenti di base per assicurarsi delle condizioni di suo figlio. I medici di Pronto soccorso, come del resto i pediatri e i rianimatori di turno non sono stati inoltre formati per poter provvedere loro in casa di emergenza. I protocolli inoltre non prevedono nemmeno che intervengano gli specialisti dall’Alessandro Manzoni del capoluogo, che è il centro di riferimento regionale più vicino per le gravidanze e i parti complessi.
Qualora fosse stato verificato che il bimbo all’ottavo mese fosse ancora vivo, nessuno avrebbe quindi potuto aiutarlo a nascere in base alle procedure interne messe a punto dopo la serrata dell’Ostetricia del presidio meratese, una struttura a servizio di un territorio dove vivono oltre 100mila persone e dove oltre 700 donne sono diventate mamme nel 2003, quasi 300 solo nei primi cinque mesi di quest’anno, sebbene costrette a dare alla luce i loro figli in nosocomi fuori zona per il progressivo smantellamento e poi appunto la definitiva chiusura della Neonatologia.
"Un caso sentinella", lo definisce il sindaco di Merate Mattia Salvioni, nel senso che, indipendentemente dalle cause specifiche in corso di valutazione che abbiamo portato alla morte perinatale del bimbo della 33enne brianzola, come si è verificato una volta, potrebbe succedere di nuovo se non verranno intraprese contromisure. Per questo proprio il primo cittadino di Merate si è già sentito con Marco Trivelli, il direttore generale dell’Asst lecchese, di cui fa parte l’ospedale di Merate e ha chiesto al manager della sanità pubblica provinciale un incontro insieme agli altri colleghi. L’obiettivo non è solo impedire, per quanto possibile, che si ripetano vicende analoghe, ma porre un argine all’incessante desertificazione dell’assistenza e delle cure sanitarie territoriali, dentro e fuori l’ospedale.