ANDREA MORLEO
Cronaca

"La mia vita cancellata ma rifarei tutto"

Omicidio del giudice Livatino, a 30 anni esce l’autobiografia di Piero Nava il super-testimone che fece condannare i killer mafiosi

di Andrea Morleo

"Pronto? Sì, sono io". Sul display la scritta “numero privato“ e la voce dal vago accento brianzolo. Dall’altro capo del telefono c’è Piero Nava, l’agente di commercio, nato a Lecco e vissuto per anni a Sesto San Giovanni, che il 21 settembre 1990 assiste casualmente all’assassinio del giudice Rosario Livatino, ucciso in un agguato mafioso, la mattina del 21 settembre 1990. Non ci pensa due volte: telefona alla Polizia, conferma di essere l’unico testimone del fatto e contribuisce in modo determinante alla cattura e alla condanna dei killer.

Da quel giorno la vita del primo testimone di giustizia italiano non sarà più la stessa: vive da anni sotto protezione, ha cambiato nome e cognome, abbandonato casa, amici, parenti e qualsiasi affetto lo legasse alla sua vita precedente. Proprio come Joseph Dominick Pistone, alias Donnie Brasco, l’ex agente dell’FBI, che sotto copertura riuscì a infiltrarsi nella famiglia Bonanno di New York riuscendo a far condannare alcuni capi delle cinque famiglie mafiose della Grande Mela.

A distanza di trent’anni Piero Nava ha voluto raccontare la sua vita in un libro autobiografico “Io sono nessuno”, edito da Rizzoli e curato da tre giornalisti lecchesi, Lorenzo Bonini, Stefano Scaccabarozzi e Paolo Valsecchi che martedì verrà presentato alla città di Lecco.

So che è banale ma le chiedo: se tornasse indietro, rifarebbe tutto quello che ha fatto?

"Le rispondo con le parole di mio padre, che mi ha cresciuto con un grande senso civico: diceva che lo Stato siamo noi e tutti devono fare la propria parte perchè se ognuno mette un sassolino, si possono costruire montagne. Ho detto quello che sapevo senza rendermi conto delle conseguenze anche se è stato un trauma. Abbraccia la croce e portala avanti, avrebbe detto sempre mio padre. Cos’altro avrei potuto fare? Se non avessi detto nulla, avrei perso la mia dignità, la cosa peggiore che possa capitare a un uomo".

Di quel 21 settembre 1990 cosa ricorda?

"Tutto, distintamente. In quel periodo lera il responsabile per il sud di un’azienda piemontese che produceva porte blindate. Sono partito in auto da Enna, diretto ad Agrigento per un appuntamento. Mi sono fermato a una stazione di rifornimento per fare gasolio e il gestore mi disse che avevo una ruota a terra e di andare piano. Così sono ripartito su quella che allora si chiamava la Scorrimento veloce. A un certo punto mi sorpassa una moto con due persone in sella e la targa coperta, faccio una curva e vedo un’auto ferma: pensavo a un incidente e invece da quel momento, a 42 anni, la mia vita è cambiata".

Ha mai avuto paura?

"Forse all’inizio, poi accetti la situazione perché in fondo non c’è alternativa. Il primo anno è stato terribile, la polizia si prese tutto: fotografie, documenti, non avevo contatto con nessuno. Vivevo barricato nella mia casa a Giffoni Valle Piana con le finestre chiuse e agenti per ogni dove".

La sua famiglia come reagì?

"Convivevo da tanti anni con una ragazza da cui avevo avuto anche una figlia. Dopo dieci anni di quella vita, eravano diventati come fratello e sorella. Un giorno mi disse: “Voglio un uomo che abbia le pantofole“ e ci siamo salutati. Ora mia figlia la vedo una volta all’anno".

Com’era invece il suo rapporto con gli uomini delle forze dell’ordine che l’hanno scortata per tutti questi anni sotto copertura?

"Tutte bravissime persone, specialmente gli appuntati e gli agenti semplici e gli ispettori. In loro percepivo sempre un grande rispetto nei miei confronti, per quello che avevo fatto. Loro, uomini al servizio dello Stato mi avvertivano come uno di loro. Anche in alcune situazioni di trasferimento complesse era sempre un “per te ci siamo sempre“. E questo mi ha fatto sempre molto piacere".

Ha mai incontrato i genitori del giudice Livatino?

"Mai visti, solo una volta mi hanno messo in contatto telefonico con loro e mi hanno ringraziato".

Lei ha vissuto qualche anno in Sicilia e più in generale al sud. Che idea si è fatto sulla mafia e sui modi più efficaci di combatterla?

"La criminalità impera perché di base al sud c’è poco lavoro. E siccome la gente deve in qualche modo mangiare è normale che ci si rivolga al boss per guadagni facili".

Come si esce da questo cortocircuito?

"Lo Stato deve andare giù, investire e creare lavoro ma farlo con persone che non si fanno corrompere. Ma non è facile parlare da qui, giù è tutta una mentalità diversa e bisogna entrare in meccanismi innati, favorire l’iniziativa dei privati ma sarà un processo lungo. Tutti i sud del mondo del resto hanno qualche problema".

Ci spiega meglio?

"Laggiù sono abituati ad arrangiarsi, non hanno una routine come la nostra: casa-fabbrica, fabbrica-casa perché le fabbriche non ce le hanno mai avute o sono rarissime. Le faccio un esempio: nel 1979 dirigevo i laminatoi di Arzano di Napoli e avevamo bisogno di operai, così un giorno mi presentai da alcuni che vendevano le sigarette fuori dallo stabilimento. Sa cosa mi risposero? Che non se la sentivano, eppure stavano sotto il sole e la pioggia per ogni giorno dell’anno. Eppure se fosse per me, andrei a vivere ancora a Napoli perché laggiù hanno sempre il sorriso"".

Oggi è felice?

"Sono tranquillo perché non ho perso il rispetto per me stesso. Sono sempre stato uno solitario e diciamo che questa situazione mi ha fatto diventare ancora più un orso".

Ha un messaggio per i giovani?

"Voglio che sappiano ciò che è successo e che capiscano la differenza tra ciò che è facile e ciò che è giusto. L’indifferenza fa il gioco delle mafie".