L'industria dei videogiochi vale più di musica, cinema e streaming messi insieme

Il gaming è cresciuto in modo vertiginoso, anche grazie ai social media e ai lockdown. Il settore in Italia vale 2,2 miliardi e dà lavoro soprattutto ai giovani

Illustrazione di Arnaldo Liguori

Illustrazione di Arnaldo Liguori

I videogiochi non sono un gioco e questa è la nuova puntata di Dieci. Una storia raccontata con video, foto e infografiche. L'informazione semplice, ma spiegata bene. Se stai leggendo da uno smartphone, clicca su > questo link < per goderti a pieno il prodotto. Altrimenti, inizia a sfogliare quello che vedi qui sotto.

Tutto tranne che un gioco. Per anni i videogame sono stati considerati un fenomeno marginale, una “perdita di tempo” per pochi appassionati. Oggi i dati ci restituiscono lo spaccato di un’industria che, per fatturato, ha superato quelle di musica, cinema e streaming online messe insieme. Parliamo oltre 152 miliardi di dollari di ricavi globali.

Diversi studi e rapporti hanno abbattuto, un po’alla volta, (quasi) ogni genere di pregiudizio su un settore che presenta ancora ampi margini di crescita, soprattutto in Italia, e che nei prossimi anni promette di diventare uno dei leader incontrastati dell’intrattenimento. Già oggi secondo solo alla televisione.

“Al momento in Italia operano 160 produttrici di videogiochi con circa 1600 di cui il 79 per cento under 36” spiega Thalita Malagò, direttore generale di IIDEA, l’associazione italiana del settore. “Nonostante le dimensioni ancora contenute dell’industria italiana, solo nel 2020 il giro d’affari dell’industria dei videogame ha toccato i 2,2 miliardi di euro, facendo registrare una crescita vicino al 22 per cento rispetto al 2019”.

Dati che ispirano ottimismo, considerati anche i fondi in arrivo dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, illustra ancora Malagò: “Alla voce finanziamento piattaforme di servizi digitali per gli sviluppatori e imprese culturali prevede investimenti per 45 milioni nel quinquennio 2021-2026 che nei prossimi anni potrebbero creare circa 1000 nuovi posti di lavoro soprattutto per giovani qualificati”.

Un sogno per tutti i produttori italiani che, nella maggior parte dei casi, fin ora hanno lavorato autofinanziandosi: “In Italia l’industria è ancora piccola e giovane, fatta eccezione per qualche struttura che opera dai primi anni ’90. Di base la maggior parte dei giochi sono fatti da sviluppatori indipendenti con team di quattro o cinque persone che si autofinanziano" racconta Mauro Fanelli, ceo di Mixed Bag, azienda italiana di videogiochi.

Questa picco di popolarità del settore potrebbe attirare anche nuovi investimenti privati, fondamentali nei lunghissimi processi di sviluppo di un prodotto: “È impossibile generalizzare. Ci sono giochi che si finiscono in due-tre ore di gioco ma alle spalle hanno anni di lavoro. Oppure grandi successi che sono stati sviluppati in due giorni. Generalmente però la fatica dietro alla creazione di un videogioco è di gran lunga maggiore di quello che comunemente si possa pensare”, spiega Fanelli.

La rivoluzione copernicana dei giochi elettronici è un processo che non si può più rallentare. In tantissimi amano i videogame, e quello che sorprende è che non ci sono eccezioni di genere o di età: dagli adulti fino ai giovanissimi, ragazze e ragazzi. Un mondo che negli anni è diventato sempre più accessibile a tutti grazie alla varietà di supporti sui cui è possibile giocare (console, pc, tablet e smartphone) e alla tendenza del “free to play” (per citarne uno Fortnite, giocato da 125 milioni di utenti nel mondo) ovvero titoli gratuiti che guadagnano sull’acquisto di contenuti all’interno del gioco.

Grazie a tutti questi fattori, quasi 17 milioni di italiani hanno provato almeno un videogioco nel 2020 (il 38 per cento della popolazione italiana tra i 6 e i 64 anni) e, contrariamente ai luoghi comuni per cui le avventure digitali sono cosa da uomini, il 44 per cento dei videogiocatori sono donne.  

Un dato, quello dei videogiocatori italiani, che ha sicuramente beneficiato dei due anni di pandemia che ha costretto a passare molto più tempo in casa, avvicinando tante persone al mondo dei videogiochi.

“Oggi è molto più comune essere un videogiocatore. Il gioco, soprattutto se vissuto online, in maniera competitiva, è stato molto sdoganato. La maggior parte dei giochi online prevede interazione con altri giocatori, facendone un fenomeno sociale più che di ghettizzazione come era percepito un tempo" sostiene Carlo Barone, responsabile del brand Riot games, casa di produzione di League of Legends, il secondo titolo più giocato al mondo, con 100 milioni di utenti mensili. "È innegabile che la pandemia abbia dato una grossa spinta al settore. In moltissimi hanno iniziato a giocare per rimanere in contatto con gli amici o per sentirsi meno soli durante il lockdown".

Messa da parte, almeno per il momento, la quarantena, l’industria del gaming italiana non ha intenzione di fermarsi. Nonostante la crescita vertiginosa registrata in questi ultimi due anni, lo Stivale è ancora molto indietro nel panorama internazionale. Basti pensare che in Polonia il settore dei videogiochi è circa tre volte più grande del nostro. La strada intrapresa però è quella giusta e l’ampliamento della platea di appassionati non farà altro che accelerare questo processo. Per un futuro sempre più digitale.