La pandemia ha fatto fare all’Italia quel cambio di passo nel lavoro agile o smart working che ha coinvolto 1,8 milioni di lavoratori privati, i quali hanno riportato stipendi più alti e preservato l’occupazione, e un terzo di quelli pubblici. In tre distinti paper gli economisti della Banca d’Italia tracciano una prima analisi del fenomeno definendolo positivo per le imprese e per i lavoratori del comparto privato ma, in attesa di studi più approfonditi, lanciano due caveat sulla Pubblica amministrazione: il primo sono i possibili effetti negativi sull’apprendimento degli studenti e l’aumento delle diseguaglianze a causa del ricorso alla Dad (didattica a distanza) nella scuola. Qui il ricorso allo smart working è stato più elevato (quasi al 60%) di quello potenziale, valutato attorno al 50%. Nel resto della Pubblica amministrazione, ed è il secondo avvertimento dei ricercatori, il lavoro agile è stato utilizzato sotto la soglia possibile (36% di media ma oltre il 50% per la PA in senso stretto) per le ‘ridotte competenze del personale’ che non sono state superate dagli investimenti in tecnologia, spesso dettati dall’emergenza e marginali. E inoltre a casa sono andati anche lavoratori con mansioni operative con conseguenze incerte sulla produttività della PA stessa.
Spesso poi il lavoro agile è stato prerogativa "dei lavoratori più istruiti, anche a parità di inquadramento professionale e anzianità lavorativa". Infine minore è stata l’adesione al lavoro agile dei Comuni che devono fornire più servizi a un pubblico, come quello italiano, molto indietro nella capacità di utilizzo delle piattaforme digitali che peraltro non sono a volte adatte. Sia nella pubblica amministrazione, sia nel privato, comunque c’è stata una forte richiesta e adesione al lavoro agile da parte delle donne. Un elemento che anche in futuro potrebbe far superare uno degli elementi di debolezza del mercato del lavoro italiano: la bassa partecipazione femminile e la difficoltà di conciliare famiglia e lavoro.