Tullio De Piscopo, 50 anni di carriera: la mia vita tutta ritmo e passione

"La mia è una storia di sudore, fatica e, come sempre, un pizzico di fortuna" di ANDREA SPINELLI

Tullio De Piscopo è figlio e nipote di batteristi

Milano, 7 maggio 2016 - «La mia è una storia di sudore, fatica e, come sempre, un pizzico di fortuna», scriveva due anni fa Tullio De Piscopo nell’autobiografia “Tempo! La mia vita”. E quel sudore, quella fatica, quel po’ di fortuna lo portano stasera al Nazionale con “Ritmo & Passione”, grande festa per i suoi cinquant’anni di palcoscenico, celebrati con la pubblicazione del triplo cd “50. Musica senza padrone - 1965/2015”.

«Percuoteva il nonno, percuoteva il padre, percuotevano lo zio e il fratello», ricorda il giornalista Pino Aprile nella prefazione di “Tempo!” risalendo un albero genealogico in battere e levare. Quella dell’uomo chiamato tamburo è, infatti, una storia di ritmo: papà Giuseppe percussionista dell’orchestra Scarlatti, il fratello Romeo, morto in maniera misteriosa, forse assassinato, cresciuto nei complessini che gravitavano attorno alla base Nato di Bagnoli: «Quando aprii gli occhi per la prima volta, intorno a me vidi una miriade di bacchette, piatti da batteria, percussioni di tutti i generi, tamburi di ogni dimensione... insomma, c’è chi nasce con la camicia e chi con le bacchette in mano». Una vita dietro la batteria quella dell’ex scugnizzo di Porta Capuana, 70 anni compiuti a febbraio, avviata divorando i dischi di Miles Davis, Charlie Parker, Max Roach, Kenny Clarke, ma poi cresciuta qui al Nord, allo Swing Club di Torino o al Capolinea di Milano assieme a Enrico Intra, Franco Cerri, Gianni Basso, Oscar Valdambrini.

Il jazz era entrato nella sua vita per caso, al tempo in cui suonava con complessini dalle aspirazioni internazionali come The Rebels o The Strangers, e a cantanti dal cognome verace tipo Mario Merola e Nunzio Gallo, quando gli capitò tra le mani un long playng di Art Blakey. «Trascorrevo le mie giornate con le bacchette in mano» ricorda. «Le usavo anche per strada, mettendo in croce i miei compagni. Già da piccolo facevo una sorta di ‘scat’ e ‘rappeggiavo’ su tutto quello che, in quell’isola felice che era allora Porta Capuana, scorreva davanti ai miei occhi». Poi arrivarono grandi incontri jazz con Dizzy Gillespie, con Chet Baker, con Gerry Mulligan, con Gil Evans e con tanti altri ancora, ma anche flirt con la canzone dei vari Celentano, Mina, Gaber, Vecchioni, Jannacci (il ritmo di “Quelli che” lo inventò picchiando con una forchetta su un tavolo), Battiato, Concato, Paoli. E, naturalmente, Pino Daniele, il “fratello in blues” assieme a cui Tullio ammette di aver dato vita “a un’alchimia perfetta, fatta di amore e magia”.

“Tutta n’ata storia”, per dirla con le parole del lazzaro felice, è pure quella dei suoi successi da hit-parade, da “Stop bajon” (uno dei primissimi rap italiani) ad “Andamento lento”, a “Conga, milonga”, ma pure delle contaminazioni sinfoniche, delle piccole grandi esperienze di musicista curioso e inesauribile. Prova ne sia lo show che al Nazionale lo vede affiancato dalla sua band (Francesca Maresca, voce, Paul Pelella, basso, Bruno Manente, tastiere, Domingo Basile chitarra, Luigi Di Nunzio, sax, Carlo Salentino, batteria), da Joe Amoruso, storico pianista di Pino e del Neapolitan Power anni Settanta, e dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare.

Stasera alle 21 al Barclays Teatro Nazionale, via Giordano Bruno 1.