
PJ Harvey porta all’Alactraz il suo “The Hope Six Demolition Project” frutto di viaggi in tutto il mondo
Milano, 23 ottobre 2016 - Ce ne fossero di PJ Harvey nel mondo del rock. La ruvida eleganza di quel “The Hope Six Demolition Project” che deposita questa sera della sirena di Yeovil sul palco di un Alcatraz esaurito già da giorni ribadisce infatti tutto il suo peso specifico, tratteggiando un percorso civile e politico accolto con qualche mal di pancia oltre oceano. L’ “Hope VI”, infatti, è il programma di recupero di alcune zone degradate di Washington DC che nei quartieri più poveri della città ha portato alla demolizione di numerosi alloggi pubblici per far spazio a nuovi nuclei abitativi e a una riassegnazione accolta con tensione dalle famiglie meno abbienti.
Gli undici pezzi dell’album - eseguito a volte per intero in concerto - sono stati composti tutti tra il 2011 e il 2014, con lo stimolo di alcuni viaggi che hanno portato Polly Jean in Kosovo, Afghanistan e Washington insieme all’amico fotografo Seamus Murphy. Murphy, oltre ad alcuni video, ha tratto dall’esperienza un libro di foto e poesie dal titolo “The hollow of the hand”, l’incavo della mano. “Washington DC ci è sembrato che il posto giusto per chiudere il cerchio” spiega la Harvey, che nel suo viaggio nelle periferie della capitale americana ha voluto al fianco pure il reporter del Washington Post Paul Schwartzman. “Molte decisioni che hanno cambiato la vita dell’Afghanistan e del Kosovo, infatti, sono state prese proprio là. E io che stavo cercando d’indagare sulle somiglianze fra paesi così lontani, sono riuscita ad imbattermi soprattutto nelle differenze”. La quarantasettenne rockeuse inglese in “The Hope Six Demolition Project” espande i suoi orizzonti verso i Balcani e l’Asia Centrale senza perdere lo sguardo obliquo sul mondo che ha fruttato un Mercury Prize al predecessore “Let England lake” e che il giorno della Brexit l’ha spinta a manifestare il suo pensiero al pubblico olandese del Down The Rabbit Hole Festival declamando il celebre sermone con cui il poeta seicentesco John Donne ricordava che nessun uomo “è un’isola” e quindi non bisogna chiedersi per chi suona la campana (a lutto), perché suona anche per noi.
Il nuovo album è stato registrato lo scorso anno nel seminterrato della Somerset House, uno dei centri culturali più noti di Londra, di fronte ai fan che, pagando un biglietto, potevano vedere la cantante al lavoro dietro un vetro trasparente assieme ai produttori Flood e John Parish e ad ospiti speciali quali Mick Harvey dei Bad Seeds di Nick Cave, o i nostri Enrico Gabrielli dei Calibro 35 e Alessandro “Asso” Stefana dei Guano Padano. “Nello scrivere una canzone ho davanti agli occhi l’intera scena, come se stessi guardando una foto animata in cui, oltre ai colori, riesco a capire che ora è, come sta volgendo la giornata, e quali sono i mutamenti dello stato d’animo” spiega la l’Harvey, puntando il dito sull’impronta giornalistica del suo lavoro. “Mettendomi al lavoro su questo disco mi sono resa conto che le informazioni in circolazione sui media erano troppo lontane dallo stimolo di cui avevo bisogno. Così ho pensato di annusare l’aria personalmente, ascoltando la terra e incontrando la gente dei paesi da cui ero affascinata”.