
Roberto Rustioni al Parenti con “Il calapranzi“, tra i primi lavori del Nobel. Due killer aspettano in uno scantinato. E tutto dipende dal montacarichi.
Minaccia. Solitudine. Violenza. Anche se i dettagli è come se scivolassero via fra le dita. Visto che ogni parola alimenta una sensazione sospesa di disagio, di obiettivi ambigui e cause incerte. Questa la cornice in cui si muove spesso il teatro di Harold Pinter. Ancor più nei suoi primi lavori. Dove vien pure da ridacchiare. Ma con la consapevolezza di essere sempre a due passi dal baratro. Ne è un esempio “Il calapranzi“, talmente bizzarro nel titolo da diventare un classico, debuttato a Londra nel 1960.
Opera giovanile del Nobel per la Letteratura 2005. Ma compiutissima. Che questa volta ha ispirato Roberto Rustioni, dal 18 al 23 febbraio al Franco Parenti. Una produzione del Biondo di Palermo. Con Dario Aita e Giuseppe Scoditti nel ruolo dei due protagonisti. Scelta che incuriosisce. Considerando il percorso parecchio cine-televisivo dell’attore siciliano e invece lo spirito da stand-up comedian che ha caratterizzato le ultime proposte di Scoditti. Sono loro i due killer in attesa nello scantinato: Ben e Gus. Autoritario il primo, più pacato e chiacchierino il secondo. Della vittima sanno solo che prima o poi entrerà in quella stanza. Stop. Per il resto le (poche) informazioni arrivano attraverso il montacarichi. Dal calapranzi, appunto. L’unico modo in cui comunica il loro capo, il mandante misterioso.
"Da tempo avevo il desiderio di lavorare su Pinter – spiega Rustioni, protagonista di un personalissimo percorso nella ricerca, fra corpo e parola –. Lo considero infatti uno dei pilastri su cui si fonda la poetica della modernità. Insieme a Cechov, Beckett e Joyce, esplora la dimensione misteriosa della condizione umana mettendo in atto nella sua scrittura il nascosto, il non detto, ciò che non si vede ma che conta più di ogni altra cosa. Ben e Gus si affrontano in continui conflitti dentro un perfetto ring tragicomico: la loro lotta disperata riflette una dimensione politica del testo. Si parla di potere, di violenza e di come la violenza sia strettamente legata al potere. “Il calapranzi“ ci dà la possibilità di scendere in profondità: quando prendiamo coscienza di come vanno le cose e iniziamo a farci delle domande sulla realtà che ci circonda e non ci accontentiamo più del nostro ruolo nel mondo, allora cosa succede?".
Una bella domanda. A cui tuttavia lo stesso Pinter non è che abbia tutta questa voglia di rispondere. Considerando il finale aperto che ha lasciato in eredità. Senza entrare in un eccesso di dettagli, molto viene ogni volta aggiunto dallo sguardo dello spettatore. O almeno la direzione ultima degli avvenimenti. Mentre il sipario si chiude sulle pistole puntate. E il dubbio coinvolge ogni sfumatura di quello che si è appena visto. Forse le nostre stesse identità. Scisse e clamorosamente caleidoscopiche. In bilico fra teatro della minaccia e quello dell’assurdo.