ANTONIO CALABRO'
Cultura e Spettacoli

Se le storie normali diventano letteratura

Vite quotidiane, minute. Storie di persone qualunque. Che diventano letteratura, per mano di chi conosce la profondità dei sentimenti e la qualità della scrittura

Libri a confronto di Antonio Calabrò

Milano, 10 luglio 2016 - Vite quotidiane, minute. Storie di persone qualunque. Che diventano letteratura, per mano di chi conosce la profondità dei sentimenti e la qualità della scrittura. “Lessico famigliare” (per riprendere la lezione di Natalia Ginzburg) che sa farsi capire da tutti e raccontare emozioni e tensioni. È arrivato finalmente in libreria “Crepuscolo”, di Kent Haruf, straordinario scrittore scoperto, per l’Italia, da un piccolo brillante editore milanese, NN. Dopo il successo, meritato, di “Benedizione” e “Canto della pianura”, tornano tra noi i protagonisti della contea di Holt, Colorado, l’America di provincia timida e scontrosa, la cittadina dove nulla succede se non la vita, le case d’uno stentato benessere, le sensazioni delle persone che lavorano, sognano senza troppe ambizioni, s’innamorano, s’ammalano, muoiono. Ma è grandissimo lo spazio per i racconti dell’umanità sincera di uomini e donne. E Haruf ne è maestro cantore, attraverso i particolari, i tratti d’un volto, un gesto, l’emozione per un paesaggio che, dietro l’orizzonte consueto, disvela sorprendenti mondi. Riecco i fratelli McPheron, allevatori solitari, la cui vita viene stravolta dall’ospitalità che danno alla giovane Victoria Roubideaux e alla sua piccola Katie. Ecco gli insegnanti, i vecchi pensionati, i ragazzini impauriti, i genitori incapaci, le assistenti sociali generose. E i bar, gli “store”, una roulotte come misera abitazione d’una famiglia infelice, i binari del treno, il freddo, le strade che portano dritte e zitte in aperta campagna. Holt somiglia al paese in cui tanti di noi sono cresciuti.

Il mondo in una pagina. Il cielo della memoria in una stanza. Anche in una stanza d’ospedale. Quella in cui è ricoverata la protagonista di “Mi chiamo Lucy Burton” di Elizabeth Strout, Einaudi (ne avevamo amato un paio di romanzi, “Olive Kitteridge”, premio Pulitzer 2009 e “I ragazzi Burgess”). Accanto a lei, a New York arriva la madre, da Amgash, cittadina agricola dell’Illinois. E il tempo della malattia è scandito dai ricordi di persone, luoghi, stati d’animo. Provincia dura, anche qui, nelle pagine della Strout. Miseria. Memorie lacerate. E legami familiari che rivelano la loro trama robusta, nonostante le differenze di ambiente, cultura e status sociale. Servono, le condizioni forti della malattia e del dolore, proprio per provare a tirare le somme dei rapporti amorosi e della propria stessa vita. Come racconta Iaia Caputo in “Era mia madre”, Feltrinelli. Torna di corsa, la protagonista Alice, nella Napoli della memoria, abbandonando d’improvviso la Parigi d’una vita densa e piena. Ritrova la casa di un’adolescenza faticosa e un padre scontroso e silente. E nell’assistere la madre in coma ascolta voci del passato, fantasmi d’amore, echi ancora vivi di scontri, incomprensioni. Taglienti, le memorie. Eppur densa di vita, la preparazione alla morte. Nei gesti d’ogni giorno, nelle parole comuni che, proprio in quei momenti particolari, si caricano di nuovi significati e intensi valori. Già, la morte. E le sue rivelazioni. Come scoprono Caterina e Daniele, i protagonisti di “Essere vivi”, intenso struggente racconto di Cristina Comencini, Einaudi. S’incontrano, i due, davanti ai corpi dei rispettivi genitori, amanti. Nulla hanno in comune, se non quel dolore improvviso. Eppure, lasciandosi alle spalle vite quotidiane e caratteri diversi, si ritrovano a condividere “una morte nel cuore” e una nuova prospettiva di vita: “È spuntata la luna, la stessa che vedo ora dalla nave…”. Sorprendente, la forza dei ritrovarsi, nonostante tutto.