DIEGO VINCENTI
Cultura e Spettacoli

“Fratelli“ di Antonio Viganò : "Il palcoscenico, un atto politico"

All’ex Paolo Pini per “Da vicino nessuno è normale“. "Mistero meraviglioso, debuttò nel ’94, in scena ovunque"

All’ex Paolo Pini per “Da vicino nessuno è normale“. "Mistero meraviglioso, debuttò nel ’94, in scena ovunque"

All’ex Paolo Pini per “Da vicino nessuno è normale“. "Mistero meraviglioso, debuttò nel ’94, in scena ovunque"

di Diego Vincenti

MILANO

Un appartamento. In centro città. Due fratelli. L’inesauribile tentativo di comunicare di fronte al muro dell’autismo. E allora ecco una partitura di gesti e di storie e di giochi. L’illusione di comprendersi. Per poi ricominciare. Da non perdere "Fratelli" di Antonio Viganò, dal romanzo di Carmelo Samonà, oggi e domani all’ex-Paolo Pini per "Da vicino nessuno è normale" di Olinda. Un duetto. Affidato in scena a Michele Calcari e Paolo Grossi.

La riedizione di uno spettacolo che ha segnato indelebilmente il Teatro la Ribalta di Bolzano. Il primo avvicinamento (tematico) alla diversità. Viganò, "Fratelli" è un frammento della vostra storia. "È così. Una volta lo interpretavo pure. Debuttò nel 1994, lo portammo in tutta Europa e di fatto fu l’inizio di quel lungo dialogo con l’alterità che ancora ci caratterizza. Grazie a Samonà scoprimmo un mistero meraviglioso e pieno d’ombre. E da lì è poi nata in qualche modo anche la nostra Accademia, il percorso nel teatro sociale. È un cerchio che si chiude".

Ma davvero le piace l’etichetta di "teatro sociale"?

"No, a dire il vero la stavo usando per l’intervista. Ho paura degli steccati. Anche perché troppo spesso non si pone attenzione al sostantivo di questa definizione: teatro. E invece è proprio l’arte l’elemento trasformativo. Nessuno di noi vuole essere socialmente utile, bensì culturalmente necessario. Se poi non si tradisce l’arte, allora puoi scoprirti anche utile, funzionale. Ma viceversa il discorso non regge". Eppure molti suoi colleghi ci cascano. "Il problema è che così facendo alimenti uno sguardo che produce solo conferme e consolazione, ribadendo uno stigma". È il mercato delle diversità. "Che va tantissimo in tv La regola terrificante per cui “se non fa pena non vale la pena“".

Come ha fatto a stare lontano dal pietismo?

"Non ho mai avuto necessità di fuggire dalla parola teatro, di frequentare le periferie per lavorare. Inoltre considero il palcoscenico un atto politico, dove ogni corpo condivide la propria ferita ed è su quello che si alimenta l’arte. Credo che abbia influito anche un atteggiamento laico sul tema, per evitare facili buonismi e amorevoli prigioni. Il senso dell’agire nasce infatti nel momento in cui ci si rende conto di poter compiere cose straordinarie. O di poter sbagliare, come tutti".

Essere una parte del teatro.

"E non un teatro a parte. Altrimenti il rischio è quello della prima scena del nostro Otello". Quella del clown?

"Esattamente, interpretato da un ragazzo down. Momento pericolosissimo perché può scattare subito un applauso motivato solo dalla sua condizione. Ma ci sono dei modi per evitarlo, per smussare la mia paura di "ammaestrare", parola orrenda e cattiva. Perché tutto si modifica nel momento in cui invece gli attori hanno piena consapevolezza di quello che stanno facendo, sanno quali emozioni mettono in campo. Per me comunque rimane un cruccio. Anche se mi ha dato un po’ pace capire che anche gli interpreti "normali" non sempre hanno consapevolezza...". Momento più bello?

"Mi piace quando dopo una replica i ragazzi vanno a salutare uno a uno i tecnici ma si dimenticano dei direttori. Riconoscono il valore unico di chi li ha aiutati a raddrizzare la quinta".

In cantiere?

"“La tempesta“, ho già il cast ma mi manca la chiave. Arriverà. Poi lascerò a qualcun altro".

Addirittura?

"Sì, è il momento, non ho più lo sguardo fresco su di loro, i miei occhi li consumano. Troppi anni. Potrebbe davvero essere un buon modo per chiudere".