Enzo Jannacci, dieci anni senza il poetastro: “Io pazzo? No, ero solo povero”

Elio al Lirico con lo spettacolo “Ci vuole orecchio” e il nuovo libro del figlio Paolo con Enzo Gentile: Milano prova a ricordare l’artista che cantava gli irregolari e gli ultimi

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Milano – Il poetastro. Lo diceva di sé stesso. Sempre un po’ biascicando. Fosse mai prendersi troppo sul serio, che poi si passa per pirla. Raccontava degli ultimi. La "roba minima". Quella con cui la Milano gentrificata fa sempre più fatica a fare i conti. Che il sogno di essere tipo Zurigo spinge alcuni a dimenticarsi dei margini.

Si sarebbe arrabbiato parecchio Enzo Jannacci. Di questa sua Milano in mano alla finanza, i quartieri imbellettati con la cipria, una tragica e trasversale assenza di (auto)ironia. Eppure di lui stanno parlando tutti, fedeli al repertorio meneghino, meno a un’eredità di pensiero profondamente etica. Sociale. Scomoda?

In un decennale dalla morte che cade oggi preciso preciso 29 marzo, inizio caldissimo di primavera senza piogge. Ed è un attimo tornare con la memoria alla camera ardente al Dal Verme, il funerale in Sant’Ambrogio. Sembra ieri. Ma non lo è affatto. Renato Pozzetto l’ha ricordato con una lettera aperta tutta cuore, dove gli chiede di preparare il pianoforte che fra poco arriva.

Anche no, dai. Che di qualche scampolo di ironia surreale se ne sente ancora un gran bisogno. Taaac. Di qualcuno che ci ricorda quanto siamo legati a un mondo lontano, lì da qualche parte sotto i grattacieli. "Iniziammo all’Oca d’Oro – raccontò Pozzetto al Giorno –, trattoria ritrovo di artisti come Piero Manzoni o Fontana. Poi di fianco aprì una galleria d’arte notturna. Andavamo tutti lì, Jannacci, Toffolo, Andreasi, Lauzi. Ci chiamavano il "Gruppo motore", quando arrivammo al Derby ci rimanemmo otto anni…". Bello immaginarseli. C’era ancora la nebbia a Milano. E le case di ringhiera non avevano idea che sarebbero presto diventate hipster. 

"Di me, una delle ultime volte che ci siamo visti, Gaber disse a mio figlio Paolo: ‘Guarda che tuo padre quando era giovane era pazzo’. Io guardai mio figlio e dissi a Giorgio: ‘Io non ero pazzo, ero povero’. Del resto si sa che i poveri e i pazzi sono sempre stati accomunati". Un episodio. Fra mille. Riportato da Andrea Pedrinelli nel bel volume Giunti dedicato al cantautore milanese.

Di nuovo a ricollocare Jannacci in zona roba minima. Circondato da quei ritratti struggenti che si alternano alle canzoni comiche, i disperati a fianco dei brani scritti con l’occhio monello: El portava i scarp del tennis e L’Armando; Vengo anch’io e Giovanni, telegrafista; Vincenzina e la fabbrica e Quelli che… (entrambi con Beppe Viola); la disperatissima Se me lo dicevi prima e Ci vuole orecchio. Così, pescando un po’ a caso.

Qualche spunto per iniziare una giornata che rimane particolare. Fragile. Mentre il figlio Paolo pubblica con Enzo Gentile in Hoepli "Ecco tutto qui", per chi ha voglia di leggere le pagine di una vita. Un mosaico di tessere solo apparentemente distanti, in bilico fra musica e medicina, teatro e concerti, cinema e tv.

In qualche modo è vero che rimane un Mistero Buffo, per dirla con le parole di un altro amico, Dario Fo. Un mistero nato in periferia. Dalle parti di Lambrate. Che invece nel centralissimo Lirico di via Larga omaggiano grazie ad Elio e al suo “Ci vuole orecchio”. Un viaggio cantato e recitato. Malinconico e divertito. In replica fino a domenica. Costruito e diretto da Giorgio Gallione. E con al centro sempre lui ovviamente: il poetastro.