Domandare di Enrico Mattei nelle Marche è un po’ come chiedere chi erano i Beatles. Gli ormai pochi che ne hanno avuto una conoscenza diretta ne serbano un ricordo mitico, un senso di gratitudine e orgoglio. Per tutti gli altri Mattei è l’eco onnipresente di antichi fasti, un nome che riecheggia nelle storie tramandate, nelle mille intitolazioni.
Mattei era l’uomo che amava dire di usare la politica come un taxi, ma quel “taxi” l’avrebbe preso tante altre volte per tornare nelle Marche, ad Acqualagna dove era nato e manteneva legami e affetti, o a Matelica dove il genio imprenditoriale si esprimeva per la prima volta. E a Matelica come ad Acqualagna sempre sarebbe tornato, anche per attingere da quella terra le sue forze migliori, prezioso carburante per far correre le sue aziende.
A Matelica Mattei era giunto dopo un’infanzia ad Acqualagna. Il padre Antonio era brigadiere e benché il lavoro non gli garantisse molte gratificazioni economiche, il 9 ottobre 1901 fu protagonista di un fatto di cronaca di cui parlarono i giornali: l’arresto, a Farneta, del brigante Musolino. Antonio avrebbe voluto per il figlio una solida istruzione, ma le risorse scarseggiavano e il piccolo Enrico non si distingueva per l’attitudine allo studio. Aveva frequentato le elementari in piazza XII settembre, poi divenuta piazza Mattei. La stessa piazza in cui si affacciava la sua modesta casa, tre piccoli vani in pochi metri quadrati, che oggi ospitano il suo museo.
Tra la piazza e il corso c’erano le sue amicizie più care, a cominciare dal falegname Enrico Fiorani, che poi avrebbe coinvolto nell’arredamento di molti Motel Agip. «Mattei – racconta il figlio del falegname, Benso, 79 anni – un giorno chiese a mio padre se avesse bisogno di un aiuto per trovare lavoro ai suoi figli, ma lui rispose che non voleva separarsi da noi, e allora Mattei lo coinvolse nel progetto dei Motel Agip». Negli anni a venire ci furono battute di pesca e viaggi a Roma, uno dei quali Enrico Fiorani non poté mai dimenticare: «Poco prima della sua morte – racconta Benso – babbo lo incontrò a Roma e tornò da quel viaggio molto turbato. Mattei gli aveva confidato che aveva ricevuto delle lettere minatorie, ed era seriamente preoccupato, al punto da piangere».
Non era più il Mattei sorridente, osannato, che arrivava in paese e trovava un’accoglienza degna di un Papa: «Accorrevano tutti, come per la festa del tartufo», ricorda Gigliola Arseni, 88 anni. «Io, adolescente, mi accodavo nel suo giro tra centinaia di persone. C’era chi gli chiedeva un lavoro, chi gli baciava le mani. Per noi era “il governo nel governo”, ha sistemato davvero tante persone». Come Elio Palombi, di Fabriano. Aveva 20 anni quando, con un diploma di perito chimico in tasca prese la strada per San Donato Milanese. Era il 1961. «Per noi Mattei era una specie di divinità – racconta – ma con noi, in azienda, aveva sempre un atteggiamento amichevole. Non era “il capo”, c’era un’assonanza fantastica: lui ci era venuto a prendere dalle Marche confidando nel fatto che l’avremmo ripagato con i risultati. E noi non volevamo deluderlo». Quell’aura leggendaria di cui si ammantano solitamente i grandi uomini defunti, Mattei se la portava appresso anche in vita. «Era l’idolo che aveva combattuto le “sette sorelle”».
Ma Mattei era anche incredibilmente audace. La stessa indole temeraria e volitiva di sua nipote Rosangela, che non si sospetterebbe osservando la ragazzina che appare nelle foto scattate 60 anni fa nel bosco di Bascapè, quando 13enne, vestita di bianco, stretta al cappotto del padre Italo, osservava i resti del jet precipitato alle 18.55 del 27 ottobre. In quel bosco avrebbe recuperato non solo alcuni resti del velivolo, ma anche la macchina fotografica uguale a quella che lo zio le aveva regalato, e che poi sarebbe finita insieme alla valigetta, agli occhiali e a mille altri cimeli, nel museo Mattei a Matelica. E con la stessa ferrea volontà avrebbe recuperato, anni dopo, l’Alfa Giulietta dello zio Enrico, la stessa che compare in alcune delle immagini più iconiche del fondatore dell’Eni e che oggi è nel garage della villa di Rosangela, anch’esso trasformato in una sorta di santuario tra pompe di benzina d’antan e ovunque immagini del cane a sei zampe.
«Ero la figlia che non aveva avuto – dice Rosangela –: un figlio, nato prematuro, gli era morto al settimo mese. Ma avevamo anche lo stesso temperamento ribelle. Tutti i fine settimana zio Enrico mandava l’autista a prendermi in collegio a Roma, e mi faceva portare all’Hotel Eden, dove un giorno vidi lo Scià di Persia. Zio, conoscendo le mie intemperanze, mi disse: “Rosy, se ti annoi mettiti a cantare o parla all’incontrario”». Rosangela possiede infatti questo talento bizzarro: «Dipende dagli emisferi del cervello. è forse un altro dono che ho preso da mio zio, che era ambidestro». È anche merito di Rosangela se la verità sull’attentato a Mattei è in parte venuta a galla. Quel talento speciale nel comporre frasi al contrario è forse lo stesso che l’ha aiutata anche a mettere in fila, a ritroso, i frammenti di verità perduti 60 anni fa nei cieli di Pavia.
Il primo a sapere dello schianto
La sera del 27 ottobre era a Linate, ad attendere l’arrivo del Morane-Saulnier con a bordo Enrico Mattei. E fu il primo a sapere che il jet, con a bordo altre due persone, in aeroporto non sarebbe mai arrivato. Sebastiano Gubinelli, 86 anni, di Cerreto d’Esi, era ai tempi aviorifornitore della flotta aerea dell’Agip. Quella sera, la ricorda perfettamente. «Aspettavamo il rientro dell’aereo, intorno alle 19 – racconta – quando, a un certo punto, scese un operatore della torre di controllo e appoggiandomi la mano su una spalla mi disse: ’abbiamo perso il contatto con il vostro aereo’. Io non gli diedi peso, a volte capitava che si decidesse all’ultimo momento di atterrare a Genova o Torino. E glielo riferii. Lui se ne andò. Una ventina di minuti dopo si sparse la voce che l’aereo era precipitato».
Per Sebastiano, che l’anno prima, nel 1961, aveva lasciato le Marche per lavorare nel servizio di aviazione, e che in Enrico Mattei aveva sempre visto molto di più dell’imprenditore illuminato che era, fu uno choc. «Il giorno dopo la tragedia arrivarono i pezzi del jet nell’hangar di Linate: ricordo ancora l’odore di carne umana e fango impigliati tra le lamiere. Incredibilmente lavarono tutto la mattina dopo, e ci misero un nastro attorno. Ma io tornavo spesso a vedere quei resti, come per cercare delle risposte. Una volta ero talmente preso da questi pensieri, che mi dimenticai di un aereo e lo feci tardare di 5 minuti».
L’ammirazione, la gratitudine: erano tanti i sentimenti che accomunavano l’immensa famiglia di Mattei. «Eravamo ’i suoi ragazzi’, era così che ci chiamava – dice Sebastiano – e non basterebbe un libro intero per capire il senso vero di questa espressione. Non eravamo i suoi operai, né i suoi dipendenti. Come posso dire? Ci teneva ’da conto’, voleva che crescessimo insieme all’azienda. Quando feci il corso a Roma per entrare nel servizio aviazione, un giorno fece arrivare tre divise gialle e ci fece scegliere quella che ci piaceva di più. Aveva per noi queste piccole grandi premure. Ho impresse nella memoria tante immagini di lui che sale sugli aerei. Sempre di fretta, affaccendato. Ma che non mancava mai di rivolgere un saluto e un sorriso a noi operai».