FRANCESCA GRILLO
Cronaca

Coronavirus, italiani bloccati in Bolivia: "Abbandonati dall'ambasciata"

Il racconto di Luca Profenna: "Nessun volo per l'Italia, abbiamo paura". Tanti lombardi nel gruppo

Luca Profenna, uno dei 50 italiani bloccati in Bolivia a causa del coronavirus

Milano, 22 aprile 2020 – Quando Luca è arrivato in Sud America il coronavirus “non sapevamo neanche cosa fosse, ci sembrava tutto lontanissimo”, racconta l’educatore, 36 anni, bloccato da oltre un mese in Bolivia, a La Paz, denominata “la capitale più alta del mondo”, 3.600 metri di altitudine. Luca Profenna ha iniziato a viaggiare per il Sud America il 5 dicembre: un mese in Argentina, un altro in Cile, poi il 12 febbraio in Bolivia. “Quando è scoppiata l’emergenza in Italia, a fine febbraio, ho iniziato a chiamare la mia famiglia, preoccupato, e la situazione qui non era così critica – ripercorre quei momenti Luca –. Qui i primi casi di positivi al coronavirus sono stati riscontrati l’11 marzo: due persone” (ora sono oltre 600, con 37 morti, ma i dati sono relativi ai pochi tamponi effettuati). Da quel giorno Jeanine Chaves, presidente del Paese ad interim dopo le dimissioni dell’ex capo Evo Morales, ha deciso di blindare la Bolivia: niente spostamenti, chiuse le frontiere, blocco di tutti i voli. E qui comincia l’odissea per Luca e per altri 80 italiani bloccati in Bolivia. Luca è di origini abruzzesi e vive a Torino, ma nella comitiva ci sono persone da tutta Italia, inclusi alcuni milanesei, pavesi e bergamaschi, parlando della Lombardia. “Abbiamo chiamato l’ambasciata per chiedere se c’era la possibilità di prendere un volo per tornare in Italia – ancora Luca –. Per giorni ci hanno risposto con la stessa formula: non abbiamo alcuna informazione. Da quelle email che ci inviava l’ambasciata ho preso gli indirizzi di tutti gli italiani coinvolti e abbiamo creato un gruppo WhatsApp per tenerci aggiornati e farci coraggio. Stiamo tutti vivendo le personali quarantene in giro per il Paese”. Poi, dopo due settimane di insistenze, l’ambasciata risponde: “Non possiamo organizzare un volo, siete troppo pochi – riferisce Luca –, come se fosse colpa nostra. Capiamo che organizzare un aereo ha un costo, ma quanto valgono le nostre vite? Quanti euro vale ognuno di noi?”. Solo domande e rabbia. I giorni passano, la quarantena in Bolivia “è durissima. Qui si esce solo una volta a settimana, a piedi, per fare la spesa in base al numero del tuo documento. Se ti dimentichi qualcosa o non ce la fai a portarti i sacchetti in spalla, ti arrangi, così come se finisci qualcosa. Le strade sono presidiate dall’esercito, la situazione politica è precaria”. Insomma, c’è anche la paura, amplificata dagli interrogativi: “Non vanno i trasporti, vietati i taxi, i bus: dobbiamo raggiungere l’aeroporto a piedi, diverse decine di chilometri di cammino per qualcuno. Ogni giorno tempestiamo l’ambasciata di email”. Le risposte arrivano, ogni tanto: “Un paio di volte ci è stato detto che le ambasciate tedesche e francesi organizzavano dei voli e potevano inserirci, pagando ovviamente cifre altissime. Persino l’ambasciata della Malesia ha organizzato un aereo: per 2mila dollari potevamo comprare un biglietto ma arrivare solo fino a Lima, poi dovevamo arrangiarci. Il problema è che anche prendendo voli francesi, tedeschi, spagnoli, poi come facciamo a rientrare in Italia? Nessuno ci dice nulla”. Degli 80 che erano, sono rimasti in 50: trenta italiani, quelli che hanno potuto raggiungere l’aeroporto, hanno preso un volo per Parigi, dormendo poi tre giorni nell’aeroporto francese. “Non ce la facciamo più – dice sconsolato e avvilito Luca –. La paura è tanta: qui non ci sono le condizioni sanitarie e di sicurezza dell’Italia. In tutta la Bolivia ci sono 400 unità di terapia intensiva. Abbiamo paura”.

Milano, 22 aprile 2020 – Quando Luca è arrivato in Sud America il coronavirus “non sapevamo neanche cosa fosse, ci sembrava tutto lontanissimo”, racconta l’educatore, 36 anni, bloccato da oltre un mese in Bolivia, a La Paz, denominata “la capitale più alta del mondo”, 3.600 metri di altitudine. Luca Profenna ha iniziato a viaggiare per il Sud America il 5 dicembre: un mese in Argentina, un altro in Cile, poi il 12 febbraio in Bolivia. “Quando è scoppiata l’emergenza in Italia, a fine febbraio, ho iniziato a chiamare la mia famiglia, preoccupato, e la situazione qui non era così critica – ripercorre quei momenti Luca –. Qui i primi casi di positivi al coronavirus sono stati riscontrati l’11 marzo: due persone” (ora sono oltre 600, con 37 morti, ma i dati sono relativi ai pochi tamponi effettuati).

Da quel giorno Jeanine Chaves, presidente del Paese ad interim dopo le dimissioni dell’ex capo Evo Morales, ha deciso di blindare la Bolivia: niente spostamenti, chiuse le frontiere, blocco di tutti i voli. E qui comincia l’odissea per Luca e per altri 80 italiani bloccati in Bolivia. Luca è di origini abruzzesi e vive a Torino, ma nella comitiva ci sono persone da tutta Italia, inclusi alcuni milanesei, pavesi e bergamaschi, parlando della Lombardia. “Abbiamo chiamato l’ambasciata per chiedere se c’era la possibilità di prendere un volo per tornare in Italia – ancora Luca –. Per giorni ci hanno risposto con la stessa formula: non abbiamo alcuna informazione. Da quelle email che ci inviava l’ambasciata ho preso gli indirizzi di tutti gli italiani coinvolti e abbiamo creato un gruppo WhatsApp per tenerci aggiornati e farci coraggio. Stiamo tutti vivendo le personali quarantene in giro per il Paese”.

Poi, dopo due settimane di insistenze, l’ambasciata risponde: “Non possiamo organizzare un volo, siete troppo pochi – riferisce Luca –, come se fosse colpa nostra. Capiamo che organizzare un aereo ha un costo, ma quanto valgono le nostre vite? Quanti euro vale ognuno di noi?”. Solo domande e rabbia. I giorni passano, la quarantena in Bolivia “è durissima. Qui si esce solo una volta a settimana, a piedi, per fare la spesa in base al numero del tuo documento. Se ti dimentichi qualcosa o non ce la fai a portarti i sacchetti in spalla, ti arrangi, così come se finisci qualcosa. Le strade sono presidiate dall’esercito, la situazione politica è precaria”. Insomma, c’è anche la paura, amplificata dagli interrogativi: “Non vanno i trasporti, vietati i taxi, i bus: dobbiamo raggiungere l’aeroporto a piedi, diverse decine di chilometri di cammino per qualcuno. Ogni giorno tempestiamo l’ambasciata di email”.

Le risposte arrivano, ogni tanto: “Un paio di volte ci è stato detto che le ambasciate tedesche e francesi organizzavano dei voli e potevano inserirci, ma senza dettagli forniti in anticipo e senza spiegarci come raggiungere l'aeroporto. Persino l’ambasciata della Malesia ha organizzato un aereo: per 2mila dollari potevamo comprare un biglietto ma arrivare solo fino a San Paolo, in Brasile, facendo scalo a Lima, poi dovevamo arrangiarci. Il problema è che anche prendendo voli francesi, tedeschi, spagnoli, poi come facciamo a rientrare in Italia? Nessuno ci dice nulla”. Degli 80 che erano, sono rimasti in 50: trenta italiani, quelli che hanno potuto raggiungere l’aeroporto, hanno preso un volo per Parigi, dormendo poi tre giorni nell’aeroporto francese.  “Non ce la facciamo più – dice sconsolato e avvilito Luca –. La paura è tanta: qui non ci sono le condizioni sanitarie e di sicurezza dell’Italia. In tutta la Bolivia ci sono 400 unità di terapia intensiva. Abbiamo paura”.