Ritorno a Bascapè: i testimoni della morte di Enrico Mattei

Il presidente dell’Eni precipitò nella campagna pavese e sopra quel pezzo di terra le indagini di un Paese s’intrecciarono per decenni alle vicende familiari di chi abitava

Testimoni dello schianto di Enrico Mattei a Bascapé

Testimoni dello schianto di Enrico Mattei a Bascapé

La strada ghiaiosa che da Bascapè porta alla cascina Albaredo da tempo è intitolata a Enrico Mattei. Il quadrilatero di campagna dove precipitarono e arsero i rottami del bireattore Morane Saulnier 760 è stato acquistato dalla Snam. Prati ordinatissimi, vialetti puliti. Una lapide con poche parole. Tre querce, una per ciascuno dei nomi incisi: Enrico Mattei, il pilota Irnerio Bertuzzi, il giornalista americano William McHale.

Il luogo dove si è schiantato l'aereo di Enrico Mattei, a Bascapé, in provincia di Pavia

I Ronchi hanno lasciato la cascina e quei poco più di trenta ettari di terreno che, da affittuari, avevano iniziato a mandare avanti dal 1950. Di Mario Ronchi ci si ricorda solo nel mese di marzo del 2003, quando il sostituto procuratore di Pavia, Vincenzo Calia, chiede al gip di archiviare l'inchiesta sulla morte di Mattei e dei suoi compagni. Solo allora qualcuno ripensa a lui, a quel piccolo, anziano agricoltore di Bascapè: Mario Ronchi, classe 1921, sopravvissuto alla ritirata di Russia e alla tragedia dell'Armir. L'unico, in tanto tempo, a essere indagato. L'unico comparso, da imputato, in un'aula di giustizia.

E adesso, si chiedono i cronisti? Sarà processato o scomparirà a sua volta, inghiottito nell'oceano delle carte? Nulla di tutto questo. Perché Mario Ronchi è morto, morto da più di un anno. Senza che nessuno, al di fuori della cerchia familiare e oltre i confini di Bascapè, lo abbia saputo. Ha concluso una vita segnata, come quella della sua famiglia, dall'impatto con il mistero Mattei. Dopo essersi trascinato nei suoi ultimi anni il peso di un'accusa tremenda: favoreggiamento personale aggravato nell'omicidio plurimo aggravato di Mattei, Bertuzzi, McHale.

Carlo Ronchi, figlio di Mario (a sinistra) e Romano Zucchini, testimone

Un testimone che offre due testimonianze, secondo la procura di Pavia. Il racconto apocalittico di Ronchi viene pubblicato dal Corriere della Sera il giorno dopo la tragedia, domenica 28 ottobre 1962: «Il cielo era rosso, bruciava come un grande falò e le fiammelle scendevano tutt'intorno. Sulle prime ho pensato a un incendio, poi ho capito che doveva trattarsi di un aeroplano. Si era incendiato e i pezzi stavano cadendo ora sui prati sotto l'acqua». L'articolo è stato redatto da Franco Di Bella sulla base delle informazioni che Arnaldo Giuliani e Fabio Mantica telefonavano da Bascapè.

La sera stessa del 27 ottobre Ronchi è stato intervistato da Bruno Ambrosi per il telegiornale Rai. L'audio è incredibilmente scomparso, per poi riprendere quando l'intervista è quasi terminata. Il pm Calia lo ricostruisce con il ricorso a una lettura “labiale”: «Ho sentito un boato e una botta e ho visto il fuoco». Più tranquillo lo scenario disegnato da Ronchi quando viene ascoltato per l'ultima inchiesta. Scorge l'incendio e in un primo tempo non si allarma; poi corre in paese, trova Pellegrino Panigada, che è anche vicesindaco e assessore ai lavori pubblici, e insieme raggiungono il posto. Il pm Calia non coltiva dubbi: il contadino di Bascapè ha modificato la sua versione. Una retromarcia «incoraggiata», secondo il magistrato, da una serie di benefici ricevuti: l'apertura di una strada di accesso alla cascina, una sorta di incarico di vigilanza e cura del Memoriale di Bascapè, un impiego per la figlia.

Carlo Ronchi, il minore dei tre figli di Mario, abita in via Mattei, a poche centinaia di metri dalla cascina. È la persona di sempre, semplice, lo sguardo buono. «Avevo undici anni. Pioveva tanto. Ero in casa con mia mamma e mia nonna. A un certo punto si sono sentiti un fischio e un boato, un boato neppure tanto spaventoso. Dopo pochi minuti, saranno stati cinque, è arrivato il papà con il trattore. Era andato ad aspettare mia sorella Giovanna che tornava in bicicletta da Milano, lui con il trattore le faceva luce da dietro perché ormai si era fatto buio. Mia madre è uscita per avvertirlo: “Guarda che si è sentito un botto”. Da quella parte si vedevano le fiamme. Le aveva viste anche il papà. Solo quando la mamma gli ha detto così, si è preoccupato. In casa non avevamo il telefono. Non ricordo se con il trattore o in bicicletta, mio padre è corso in paese, da Panigada, che aveva un'officina meccanica e il telefono. Con la 'giardinetta' di Panigada si sono portati sul posto, hanno visto la coda dell'aereo che bruciava. Sono tornati indietro di volata e hanno chiamato i carabinieri. Mio padre ha lavorato per tutta la sera con i vigili del fuoco. Sprofondavano nel fango e lui cercava di tirarli su con il trattore. “Guardi, gli hanno detto, che non possiamo pagarla. Ma se succede qualcosa da lei in cascina, veniamo noi”».

Patrizia Colmi, testimone (a sinistra) e Luigina, figlia del testimone Pellegrino Panigada

Carlo è stato l'ombra fedele, il sostegno del padre negli anni più difficili. «Ha detto la verità, fin dall'inizio. Non capisco come possano essere uscite certe cose. Aveva visto le fiamme alte, ma non si era preoccupato pensando a un incendio in campagna. Fiamme da terra, non in cielo. Questa è sempre stata la sua versione. Il difensore, l'avvocato Dell'Acqua, glielo aveva raccomandato: “Ronchi, lei dica la verità”. “Avvocato, se la verità è questa, perché devo ritrattarla?”».

«Quella dei benefici che avremmo avuto è una storia. Mia sorella ha sempre lavorato in una piccola ditta a Milano. La strada sistemata non era nostra ma del proprietario della cascina Albaredo. Per la luce in casa, in quel periodo avevano già cominciato a sistemare i pali. Ci davano 200mila lire l'anno per tagliare l'erba al sacrario di Mattei e innaffiare con una pompa che avevamo collocato. Tagliavamo l'erba e la portavamo a casa. Un po' di erbetta ci interessava per le nostre bestie».

«Da quando è uscita la storia mio padre non era più lui. Non gli passava. Era un pensiero fisso: “Almeno sapessi qualcosa di più, lo direi”. Io cercavo di tenerlo su: “Non pensarci, lo so che non è giusto, ma cerca di non pensarci”. Niente. Il dispiacere era troppo forte. Ci soffriva, lui che era una persona di compagnia, quando capitava che qualcuno lo guardasse in modo un po’ strano. Per fortuna c'erano gli amici veri. È stato male soprattutto verso la fine. Ancora prima di morire mi ha detto: “Ma tu guarda cosa mi doveva capitare”. Subito dopo ha aggiunto: “Perché deve andare avanti questa storia? Io ho sempre detto la verità”».

Un sole inatteso a ottobre avanzato illumina la tranquillità ancora in buona parte rurale di Bascapè. Pare allontanare il ricordo di quella serata di tragedia ancora più di quanto non abbiano fatto i sessant’anni trascorsi. La pioggia violenta, insistente. Il fango come una morsa. La luce incerta delle lampade. I rottami dell'apparecchio sparsi per centinaia di metri. Appesa a un cespuglio la manica di un giubbotto con dentro un braccio. Un polso con ancora l'orologio attaccato. I minuti brandelli delle tre vite distrutte raccolti nei secchi della mungitura.

La legge del tempo ha falcidiato molti testimoni diretti. Qualcuno è rimasto, memoria vivente del “giorno di Mattei”. La sua panetteria è un negozio storico. Romano Zucchini abita a Bascapè dal 1961. Ottantotto primavere portate con energia, memoria nitida. «Era sull'angolo della piazza con il mio amico Pietro Gariboldi. Parlavamo di lavoro. C'era un gran temporale, acqua, fulmini. L'aereo è arrivato da sinistra, andava verso Milano. “Quel lì l'è mat, ho pensato, con questo tempo non gli fanno fare l'atterraggio”. A un certo punto non si è più sentito. Ha girato, è tornato. Andava sulla sinistra, verso Landriano. Un momento prima che uscisse mia moglie per avvisarmi che era pronta la cena, abbiamo visto come un bagliore. Un attimo, come una lampadina che si accende e subito dopo si spegne. Era un bagliore fermo, fisso. Non era un fulmine. Era un bagliore differente. Ce l'ho sempre davanti agli occhi. Non abbiamo sentito nessun rumore, c'erano i tuoni. L'aereo non l'abbiamo più né visto né sentito. Per me era scoppiato in aria. Verso le tre di notte si sono presentati due carabinieri a cercare qualcosa da mangiare. Abbiamo saputo allora che era caduto l'aereo di Mattei».

Luigina Panigada è la figlia di Pellegrino, con Mario Ronchi il primo testimone del rogo: «Hanno visto tutto quel fuoco. Negli anni a seguire mio padre ne parlava poco. Era uno che le cose le teneva per sé».

L'ultima foto di Enrico Mattei, prima che salisse sull'aereo che sarebbe precipitato

Gli occhi di una bambina di sette anni fissano la fine di un personaggio epocale e l'inizio del grande mistero. Patrizia Colmi aveva sette anni. «Abitavamo a Landriano, dove mio padre Luigi era daziere. Papà è tornato dal lavoro in auto. Faceva buio. Aveva già notato l'aereo in volo. Ce lo ha detto. La nostra casa guardava verso Bascapè. Eravamo tutti sulla veranda a guardare, io, il papà, la mamma. Ricordo qualcosa di luminoso nel cielo. Se dovessi riassumere adesso quello che pensavamo, direi che l'aereo aveva una direzione strana, sembrava impazzito. L'abbiamo seguito fino a quando non l'abbiamo perduto. Il giorno dopo abbiamo saputo di Mattei e abbiamo collegato».