Alberto Genovese torna in carcere. Perché i pm hanno deciso per lo stop ai domiciliari

Due strade a disposizione della difesa: ricorrere contro il provvedimento o rivolgersi al tribunale di sorveglianza per chiedere una misura alternativa al carcere. Sulle accuse di elusione gli avvocati puntano all’accordo con la Procura

Alberto Genovese a processo

Alberto Genovese a processo

Milano - Alberto Genovese, l’imprenditore digitale, guru delle startup, condannato a 8 anni e 4 mesi (scesi a 6 anni e 11 mesi dopo la rinuncia al ricorso), torna in carcere, a Lecco, perché la Procura ha valutato che i reati per cui è stato condannato, cioè violenza sessuale e violenza sessuale di gruppo (in concorso con l’ex fidanzata nel caso di Ibiza), sono ostativi alla concessione della detenzione domiciliare che stava scontando in una clinica per disintossicarsi dalla cocaina. Questa la motivazione principale nel provvedimento della Procura, che si somma al fatto che il residuo di pena è di più di 4 anni. È di circa 4 anni e 8 mesi, infatti, ma con l’eventuale concessione della liberazione anticipata potrebbe scendere fino a poco più di 4 anni e 2 mesi.

Difesa: le possibili strategie

Ora la difesa di Genovese ha di fronte due strade: ricorrere contro il provvedimento della Procura davanti al giudice dell’esecuzione che ha emesso la sentenza; oppure rivolgersi al Tribunale di Sorveglianza per chiedere che venga concessa una misura alternativa al carcere, ossia che possa tornare comunque ai domiciliari, anche prima che il residuo pena scenda sotto i 4 anni. Intanto la difesa di Genovese sta cercando l’accordo con la Procura per chiudere la costola economica del processo, attraverso il pagamento di 4 milioni di euro all’Agenzia dell’Entrate. Sanare il debito sulla base di una “elusione“ più che di una vera evasione, è la strategia seguita dal team di legali dell’imprenditore ex bocconiano, stando alla Procura. Così Genovese sarebbe disposto a pagare oltre quattro milioni, importo ancora da definire con l’accordo.

La questione economica

Il pm Paolo Filippini aveva già chiesto il sequestro dei beni dell’imprenditore, per la precisione di 4,3 milioni di euro. L’istanza, rigettata in un primo momento dal giudice Tommaso Perna, era stata avanzata specificamente nel filone sulle movimentazioni finanziarie dell’ex bocconiano. I reati fiscali su cui hanno lavorato i pm riguardavano, da un lato, redditi da lavoro che Genovese avrebbe dichiarato come redditi da capitale e riferiti al suo ruolo dell’epoca in Facile.it Holdco Limited. Dall’altro lato, a Genovese era stata contestata pure una evasione sulla liquidazione di alcune partecipazioni in Facile.it (società di cui fu fondatore) realizzata, secondo i pm, attraverso lo schermo di una delle sue società, la holding Auliv, su cui erano confluite le stesse partecipazioni. Dopo i giudici del Riesame anche la Cassazione aveva confermato il sequestro di 4,3 milioni di euro all’imprenditore. Se il nerd diventato “mister 200 milioni“, oggi 45enne, riuscisse a chiudere la costola economica dell’inchiesta, lo step successivo per Genovese sarebbe l’altra tegola della detezione di materiale pedopornografico.