
“Un bambino che a bassa voce dice di esser solo, mi mostra le ferite e confessa di avere fame: tutto davanti ad un centro migranti finanziato dall’Ue. Cosa si può dire a un minore a cui è stata rubata l’infanzia?". È una delle storie che Paula Jesus, documentarista sociale freelance, ha raccolto nel suo viaggio lungo la rotta balcanica tra Belgrado, Rade (muro Kubekhaza), Subotica e foresta di Selevenjske pustare (Ungheria).
Originaria del Cile ma residente a Brescia, si occupa di diritti umani. "Sono sensibile a questi temi per amore alla verità e perché sono stata anch’io migrante illegale: conosco il sapore e la puzza della povertà e ammiro chi ha voglia di riscatto e forza di vivere". Sulla rotta balcanica era già stata 4 anni fa. "Molto è cambiato, ma continua a essere uno dei principali corridoi di ingresso in Europa. Le persone arrivano da Pakistan, Afghanistan, Iraq, Turchia, Kurdistan, India e Siria, ma ora sostano per meno tempo meno nei Paesi di transito. E per questo sono sempre più invisibili".
Il viaggio verso l’Europa costa tra i 10 e i 15 mila euro a persona, senza garanzie. "Ma adulti e bambini hanno fame di vita e sono disposti ad attraversare il mondo scalzi e mangiare cibo per cani pur di riuscirci". Il viaggio parte dall’ex stazione ferroviaria di Belgrado. "Su indicazione di due clochard, trovo una stanza che sembra una camera degli orrori. È agosto, il caldo fa fermentare l’odore di escrementi. Qui le persone dormono, mangiano e trovano riparo dalle minacce". A pochi passi c’è il parco Luke Celovica. "I migranti sono facilmente individuabili: zaino, busta di plastica, ciabatte o scarpe consumate. Il volto è duro, spesso assente".
Sulla strada Paula incontra un ragazzo a cui chiede il nome. "Lui istintivamente alza le braccia e dice: “Afghanistan“. Sorrido, ma è un riso amaro. Queste persone non hanno più quotidianità né amici, solo persone a cui si affiancano per superare confini e momenti critici". Al campo di Obrenovac (dove ha appuntamento con “Afghanistan“), Paula incontra molti minori soli, tra cui il bambino che le confessa di aver fame. "Avrei voluto potermi prendere cura di lui. È doloroso sentirsi inutili".
A Rade, a Kübekháza inizia il muro di Orban. "Qui la vita scorre lentissima tra campi di mais, cipolle e girasoli. I migranti ormai non cercano più di attraversare il confine da lì. A Subotica c’è un campo formale, ma le persone stanno per lo più fuori dai cancelli in attesa dei tassisti che li porteranno vicino al confine".
La sera, il campo si trasforma. "Nel buio, i volti illuminati dai fari delle macchina risultano spaventosi – è il racconto incalzante di Paula –. Mani che prendono mazzette, mazzette da tutte le parti, sembra il mercato di Fez. Un traffico di essere umani davanti al campo ufficiale finanziato dall’Ue. I tassisti pagano la polizia o l’esercito per poter continuare a caricare i loro “clienti“". Paula segue una macchina per capire dove i tassisti portino i migranti, sfrecciando a più di 100 km/h tra strade strette (non sono rari gli incidenti anche mortali). Per questioni di sicurezza, torna all’alba nella riserva naturale Selevenjske pustare, dove ha visto lasciare i migranti durante la notte.
"Del passaggio restano solo vestiti, bibite energizzanti, scarpe usurate, biberon. Dopo un’ora, si palesa la polizia serba e sei soldati della forza speciale chiedendo conto della mia presenza lì. Ho avuto paura: avevo documenti sensibili, la mappatura delle persone in transito, testimonianze scritte, nomi e cognomi. Ho alzato le mani e ho risposto: ‘Italia’”.