
Rosario Marchese in aula durante l’udienza ieri al tribunale di Brescia
Brescia - È entrato nel vivo con l’esame degli imputati il processo agli stiddari del nord coinvolti dal filone mafia dell’inchiesta Leonessa, che coinvolge oltre cento persone tra cui numerosi imprenditori beneficiari dei “pacchetti fiscali” forniti dal clan - questa la tesi accusatoria - per evadere le tasse. Ieri davanti ai giudici - presidente, Maria Chiara Minazzato - il presunto “padrino” Rosario Marchese naturalizzato sul Garda. Stando al pm della dda Paolo Savio con i pregiudicati Angelo Fiorisi e Roberto Raniolo aveva costituito sull’asse Brescia-Milano-Torino una cosca ispirata alla stidda gelese, il cui business appunto erano le indebite compensazioni con i falsi crediti. Il 35enne di Caltagirone, un impero di 15 milioni provenienti da un giro vorticoso di società operative in ambiti disparati, dalla consulenza alla sponsorizzazione di eventi (tra cui il festival di Sanremo) dal noleggio di auto agli studi dentistici ai bar, confiscati la scorsa estate dalla Dia di Caltanissetta, ha ammesso di aver fatto fortuna con i magheggi fiscali: "il mio know how da sempre. Usavo crediti inventati da me usando il codice 6742, per aree svantaggiate - ha dichiarato assumendosi la responsabilità di un’ottantina di imputazioni - Mi trasferì a Milano e poi a Lonato del Garda nel 2016, per seguire mia moglie in cura al San Raffaele. Non ho mai avuto a che fare con la mafia. Non sono mai stato condannato, né ho mai ricevuto avvisi di indagini". Errore, lo ha corretto il pm ricordandogli la recente condanna a Caltanissetta a 5 anni e rotti per droga a 416 bis nell’ambito dell’inchiesta Stella cadente. Una sentenza da cui però lui ha preso le distanze.
"Non ho mai aderito al clan Rinzivillo né alla stidda. Non ho mai preso ordini né li ho dati, né ho usato violenza. Operavo da solo: avevo i miei procacciatori di clienti che pagavo a provvigione. Alcuni imprenditori se li gestivano loro, altri io. Molti mi cercavano perché sapevano che cosa facessi. I proventi rimanevano a me, non finanziavano il traffico di droga delle cosche". A sentire Marchese, erano "semplici procacciatori" pure Fiorisi, cui mandava Whatsapp quotidiani di buongiorno e buonanotte, e Raniolo, "soprannominato zio perchè era più grande, ma non eravamo parenti". Il primo è a dibattimento con Marchese e altri 14 presunti stiddari, il secondo è stato già condannato a 5 anni e 8 mesi in abbreviato solo per associazione semplice finalizzata ai reati fiscali, la mafia non è stata riconosciuta.