Annamaria Berenzi è la migliore prof d’Italia: "Le mie lezioni fra numeri e chemio"

Brescia, lavora con i bambini ricoverati il Nobel per gli insegnanti

Anna Berenzi, premiata come miglior docente d'Italia (Fotolive)

Anna Berenzi, premiata come miglior docente d'Italia (Fotolive)

Brescia, 18 marzo 2017 - Capelli a spazzola, sorriso dolce, sguardo determinato. È Annamaria Berenzi, insegnante di matematica nella sezione ospedaliera dell’istituto tecnico Castelli di Brescia, la docente più brava d’Italia. Lo ha deciso la Giuria dell’Italia Teacher Prize, la prima edizione del “Nobel” per gli insegnanti. Dopo la cerimonia di premiazione a Roma, Berenzi ha preso il volo per Dubai, per il Global Teacher Prize.

Con lei ha vinto la buona scuola? «Penso che il premio puntasse a far emergere le belle storie di cui le nostre scuole sono piene, nonostante si parli spesso più di ciò che non funziona. Con me ha vinto tutta la scuola in ospedale, una realtà bellissima, di cui si parla poco. Non ci conosce nessuno, le scuole stesse sono impreparate a interagire con noi. Credo che questo premio sia una bella opportunità per tutti».

Lei dev’essere particolarmente brava, visto che è stata una sua alunna a candidarla. «Non me l’aspettavo, mi creda, è stata una sorpresa che mi ha fatto piacere. Alessia, che ora è una matricola di biotecnologie, mi ha mandato un messaggio per dirmi che mi aveva candidata, perché far lezione di matematica era il miglior modo di distrarsi quando faceva la chemioterapia».

Ci racconta come funziona la scuola in ospedale? «È una scuola d’emergenza, che si fa nei reparti degli Spedali Civili di Brescia. I nostri studenti sono bambini e adolescenti costretti a degenze più o meno lunghe, nei reparti di Pediatria, Oncoematologia pediatrica, Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza. Più o meno 150 ragazzi all’anno, di cui una trentina di lunghe degenze. Li aiutiamo a non perdere l’anno».

Qui, più che altrove, fare l’insegnante è una missione. Ha mai pensato di mollare? «È una scuola in cui fare lezione significa ricordarsi che esiste una parte della tua vita che non viene risucchiata da degenza, terapie e isolamento. Io ho iniziato questa avventura otto anni fa, allora ero un sovrannumero nel mio istituto. Avevo paura di non reggere il carico emotivo, ma con il tempo ho imparato che i nostri studenti degenti ci insegnano a non voltare la faccia di fronte alla fatica e al dolore. Ora mi ritengo una privilegiata, non lascerei mai».

Come si svolgono le lezioni? «Le mie lezioni sono individuali, con ragazzi che si trovano da un momento all’altro in stato alterato. Spesso vivo l’emergenza. A volte devi improvvisare, perché puoi aver fatto un programma, ma se il ragazzo ha appena fatto un ciclo di chemio, salta tutto».

Cosa rappresenta la scuola per i vostri studenti? «Per loro studiare è difficilissimo, ma d’altra parte lo studio diventa un modo per distrarsi e ricostruirsi un po’ di quella quotidianità di cui hanno bisogno».

E il rapporto con l’esterno? «Per i ragazzi è importante sapere che teniamo a loro. Non sempre chi sta fuori dall’ospedale lo comprende. C’è chi ha un approccio troppo buonista, chi invece proprio non capisce le difficoltà che si trovano a vivere, soprattutto quando rientrano a scuola dopo la degenza».

Cosa farà con i 50mila euro del premio? «Il mio sogno è realizzare il progetto “In viaggio per guarire”, una sorta di campagna di responsabilizzazione con tappe in diverse scuole d’Italia che coinvolga i suoi studenti (sia quelli attualmente in cura sia quelli già guariti) come testimonial».