Mantova, 22 gennaio 2024 - Costretta a una dieta da incubo e clistere per non perdere il posto di lavoro da impiegata in un’azienda edile mantovana. Il tutto condito con offese verbali e in mail pubbliche come “cerebrolesa”
Un lavoro che era diventato una vera e propria tortura fisica e psicologica sino a portarla a una profonda depressione e una lunga disputa il tribunale che si è conclusa in Corte di Cassazione con un risarcimento per il danno biologico e morale.
La storia
Appena assunta, tramite una agenzia per il lavoro, alla donna "la socia e amministratrice della società le consegnò un clistere con la prescrizione di utilizzarlo, le impose una dieta ipoglicemica affinché potesse dimagrire e indossare una divisa di taglia media o small”. E non solo: “ la costrinse a sottoporsi a sedute di massaggi sul luogo di lavoro che lei stessa praticava, le impose degli esami del sangue e le chiese la password per consultarli con la scusa di darle un consiglio in presenza di eventuali anomalie".
Le umiliazioni
Per la Cassazione “risulta accertato che la lavoratrice era stata più volte denigrata in pubblico e rimproverata in malo modo con forti urla e sia stata offesa con richieste riguardanti la propria persona del tutto estranee all'attività lavorativa e spesso sia stata accompagnata in uno stanzino ed ivi trattenuta dalla datrice di lavoro e dalla collega più anziana”. “Lo spaccato lavorativo – aggiunge la Corte – descritto trova un inequivocabile riscontro nella mail la socia e amministratrice inviò per sbaglio all'indirizzo di posta aziendale, accessibile a tutti i dipendenti, in cui l'oggetto è indicato in "cerebrolesi" e nel suo contenuto si parla della dipendente”.
Straining
Per la Corte di Cassazione-sezione lavoro, che ha pubblicato la sentenza nei giorni scorsi, la donna è stata vittima di “straining”, cioè è stata messa sotto pressione dal comportamento stressante da parte del datore.
Il risarcimento
Gli “ermellini' hanno confermato la sentenza della Corte d'Appello di Brescia, che a sua volta aveva recepito quella di primo grado del Tribunale di Mantova, condannando la società a versarle 12.500 euro per il danno biologico e quello morale. Da una relazione medica risultava infatti che la donna soffrisse di depressione a causa del comportamento del suo capo.