Treviglio, suicidio in clinica: due psichiatri a processo

I medici inviarono la paziente in una struttura in Romagna, ma per il pm erano carenti la cartella clinica e le informazioni e non furono adottate misure adeguate

L'ospedale di Treviglio

L'ospedale di Treviglio

Treviglio (Bergamo), 20 marzo 2018 - Il pomeriggio del 26 marzo 2015 una paziente 40enne affetta da ‘disturbo borderline di personalità’ fu trovata suicida poche ore dopo il ricovero a Villa Azzurra, clinica psichiatrica di Riolo Terme (Ravenna). Per quella vicenda furono inizialmente indagate quattro persone. Mentre per i vertici della struttura romagnola la posizione è stata archiviata, a processo per omicidio colposo sono finiti il responsabile e un medico del Servizio psichiatrico di diagnosi e cura, l’Spdc di Treviglio (Bergamo), dal quale la donna era stata trasferita a Villa Azzurra in un contesto di dimissioni assistite.

Questo, tuttavia - secondo il pm Angela Scorza - con una cartella clinica carente e senza che i colleghi romagnoli fossero stati adeguatamente informati sullo stato clinico della paziente. La donna, bergamasca, aveva tentato la prima volta il suicidio nel 2010, da qui fu avviata a una fase di cura che nella primavera 2015 avrebbe dovuto condurla a un percorso riabilitativo nella clinica di Riolo per disintossicarsi dalle sostanze (medicinali e stupefacenti) di cui spesso abusava, spesso portandola sull’orlo del gesto estremo. Come nel caso di quel 23 marzo, quando si imbottì di psicofarmaci, all’indomani fu ricoverata in terapia intensiva all’ospedale di Bergamo, poi il 25 nella struttura psichiatrica di Treviglio dove però rimase solo una dozzina di ore. E il 26 fu mandata a Riolo, dove si tolse la vita.

Secondo Michele Sanza, direttore del dipartimento di patologia dell’Asl Romagna, chiamato ieri a testimoniare in qualità di consulente della Procura, le comunicazioni da Bergamo furono deficitarie in quanto il quadro clinico, rispetto al ricovero programmato per il progetto di disintossicazione, era mutato in ragione del sopraggiunto tentato suicidio. Ai colleghi di Villa Azzurra «non fu adeguatamente rappresentato quanto successo nelle 24 ore precedenti», cioè l’adeguato rischio suicidiario. Ma, soprattutto, le dimissioni dall'ospedale furono affrettate e le poche ore di ricovero, per il consulente, non sarebbero state sufficienti a investigare correttamente il nuovo stato della paziente. Tanto che la donna, dai medici di Villa Azzurra, fu assegnata a un reparto per pazienti a rischio suicidiario medio (con assistenza ogni 45 minuti) e non al protocollo di massima emergenza, con assistenza continuativa da parte del personale.

Se da un lato la cartella di dimissioni riferiva dell’abuso di sostanze, tratteggiando quello che in gergo tecnico viene definito tentativo di suicidio dimostrativo, dall’altro riportava che la crisi era rientrata quando, al contrario, per il consulente era ancora in fase acuta. Peraltro aggravata dal fatto che da Bergamo non fossero state inviate le valigie della donna, cosa che pure – unitamente a una crisi sentimentale – avrebbe avuto un ruolo accentuando in lei il senso «di solitudine e disperazione» che l’ha portata a impiccarsi alle maniglie dell’armadio, non a norma per il consulente. Davanti al giudice Beatrice Bernabei, con le loro domande gli avvocati difensori del ‘Spdc’ (Eugenio Zaffina e studio Vinci) hanno voluto evidenziare che la cartella clinica riferiva del tentativo di suicidio di tre giorni prima e la clinica di Riolo avrebbe potuto valutare in autonomia l’adeguato protocollo di ricovero; inoltre tra gli specialisti delle due strutture lombarda e romagnola vi sarebbero stati numerosi contatti telefonici e scambio di informazioni.