Bossetti, la difesa spara a zero: "L’esame del Dna è tutto da rifare"

"È un irriducibile innocente. Non siate complici del gioco al massacro"

L'avvocato Claudio Salvagni

L'avvocato Claudio Salvagni

Brescia, 11 luglio 2017 - "Non siate complici di questo gioco al massacro di questa persona che non ha commesso alcun reato». I difensori di Massimo Bossetti terminano la loro lunga giornata con una esortazione ai giudici della Corte d’Assise d’appello. Accanto a loro, l’imputato tradisce un attimo di commozione. Massimo Giuseppe Bossetti, ribadiscono i difensori, non è l’assassino di Yara Gambirasio. Bossetti è un «irriducibile innocente». I difensori chiedono l’assoluzione per non avere commesso il fatto e, in subordine, una perizia sul Dna.

Dice il difensore Paolo Camporini: «Noi siamo convinti che c’è un uomo che rischia l’ergastolo perché c’è qualcuno che ha sbagliato e difende i propri errori: si è impedito di smascherarlo». «Non abbiate paura - aggiunge il legale - di dubitare e di prendere qualsiasi decisione oltre ogni ragionevole dubbio. Dalla controparte c’è stato un rifiuto costante di confrontarsi, per non rischiare, spacciando per certo quello che certo non è, per paura delle smentite. Se si ha paura del confronto è perché non si è sicuri del risultato, altrimenti si sarebbe lasciato fare la perizia. La ricerca del risultato a tutti i costi porta al peggior risultato, che si chiama “errore giudiziario”. Siamo di fronte alla possibile conferma di un clamoroso errore giudiziario». Si parte, inevitabilmente, dal Dna. «Sono stati commessi troppo errori. Ho il massimo rispetto per le istituzioni, ma quando sbagliano, perché sono costituite da uomini, va ammesso. Bisogna rispettare le regole imposte dalla comunità scientifica per poter sostenere una prova che porta un uomo all’ergastolo». È un passaggio, uno dei più puntuti, nelle 6 ore dell’arringa dell’avvocato Claudio Salvagni. La difesa porta una serie di attacchi per insinuare almeno il cuneo del dubbio nella muraglia dell’ergastolo che cinge il muratore di Mapello. Un attacco frontale, ripetuto, insistito al cardine dell’accusa, il Dna rimasto su Yara, quell’“Ignoto 1”, che per la genetica s’identifica con l’uomo condannato in primo grado al carcere a vita.

I test sul Dna non sono validi, saettano i difensori. Non sono stati rispettati i protocolli fissati dalla comunità scientifica internazionale. «Secondo l’accusa - scaglia Salvagni - su 101 ripetizioni dei test su quella traccia ben 71 hanno dato Ignoto 1. Ma in nessuna di quelle 71 volte è uscita una indicazione valida: valore zero. Al contrario dimostreremo, una per una, 261 criticità». Quindi, per la difesa, s’impone un nuovo accertamento genetico. Kit scaduti. Reagenti scaduti. Esiti difformi in esami eseguiti nella stessa giornata. La presenza dell’ “allele” di uno sconosciuto («E se fosse il vero Ignoto 1?», lancia Salvagni). Il Dna mitocondriale. È un altro caposaldo della difesa. Nella traccia biologica 31 G 20, la migliore, quella che gli esperti hanno definito «eccezionale» per quantità e qualità, è presente il Dna nucleare dell’imputato ma non il mitocondriale. Una sparizione che non ha trovato spiegazioni. Non solo: è stato rintracciato un altro Dna mitocondrale, questo sconosciuto. La difesa torna a cavalcare un suo cavallo di battaglia: la tredicenne di Brembate di Sopra è stata ferita altrove e solo in un secondo tempo il corpo è stato trasportato nel campo di Chignolo d’Isola. È impossibile che un Dna si conservi tanto nitidamente, su un corpo rimasto esposto per tre mesi all’umidità, alle intemperie. Yara aveva le calze macchiate di sangue ma indossava le scarpe. Sulle calzature sono stati trovati 20 elementi di terriccio: 8 erano comuni al terreno circostante e gli altri? Il perimetro occupato dal corpo era contornato dalle fluorescenze di una pianta che germoglia in 20-25 giorni.