Coronavirus, l'infermiera in prima linea: "Uno choc tanti morti e io loro ultimo conforto"

Sangeetha, in campo dal 7 marzo al Papa Giovanni XXIII: nelle prime due settimane sembrava non dovessero finire mai

L'infermiera di Bergamo Sangeetha

L'infermiera di Bergamo Sangeetha

Bergamo, 15 aprile 2020 - In India il suo drammatico affacciarsi alla vita, la madre che muore dandola alla luce. Il padre l’abbandona in ospedale dove le infermiere le danno un nome dolcissimo, Sangeetha, musica, melodia. I primi mesi in un istituto prima di essere adottata da una coppia bergamasca. La scelta di lavorare come infermiera. Sangeetha Bonaiti è in prima linea, in un reparto Covid dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo.

Come inizia la sua storia? "Sono nata nel 1984 in un ospedale a Bangalore. Mia madre è morta di parto. Mio padre se n’è andato. Sono rimasta nell’ospedale fino a quando non è arrivata suor Armida, italiana, delle suore di Maria Bambina, che dirigeva un istituto per bambini orfani a Solur. A due anni Tino e Miriam mi hanno adottata".

E ha trovato i genitori, una famiglia. "Bergamaschi di Seriate. Nel mese di febbraio dell’86 ero a Bergamo. Dopo la mia adozione i miei genitori hanno avuto tre figli biologici, mia sorella e i miei due fratelli, che ora vivono negli Stati Uniti".

Come ha deciso di diventare infermiera? "Già mio padre mi aveva prospettato questa opportunità. Un’amica della mia famiglia conosceva un’infermiera dell’Ospedale Maggiore di Bergamo. Ci siamo incontrate per un caffè. Non dimenticherò mai il suo sguardo, i suoi occhi. Ho pensato: ‘Se fare l’infermiera ti fa avere uno sguardo così, allora farò l’infermiera’".

Come è stato il suo incontro con la pandemia? "Alle tre e mezzo del pomeriggio del 7 marzo mi ha telefonato il caposala per dirmi che sarei stata chiamata a lavorare a tempo pieno per l’emergenza. Alle otto di sera la chiamata della direzione delle professioni sanitarie. L’urologia era stata chiusa per trasformarla in pneumo-Covid. Non ho dormito. Ho preso servizio la sera successiva. Il reparto era aperto da due giorni e si stava già riempiendo con i pazienti che arrivavano a catena dal pronto soccorso. Frenesia, concitazione, nuovi colleghi, una malattia sconosciuta che portava i pazienti a peggiorare velocemente".

Quali sono state le giornate più difficili? "Nelle prime due settimane ho visto morire tante persone anziane. Sembrava che non dovesse finire mai. Mi portavo a casa un senso di frustrazione terribile. Per tanti non c’era stato neppure il tempo per essere lì mentre morivano, era tutto era troppo rapido. Tornavo a casa senza forze. Una notte una nonnina mi ha chiamato perché non riusciva a dormire, era in pensiero per i suoi nipoti che non vedeva da tempo. Le ho fatto compagnia. Mi ha sorriso e mi ha ringraziato dicendomi che ero un angelo. Dopo un turno ho appreso che non ce l’aveva fatta. Il vescovo di Bergamo aveva autorizzato medici e infermieri a portare la benedizione ai malati. Ho benedetto due persone. Un altro paziente mi ha chiesto di pregare con lui".