Jack The Smoker: "La capitale del rap è qui"

L’artista di casa «Machete» al palco alterna lunghe sessioni in studio e si divide fra scuole e centri giovanili dove insegna scrittura creativa

Jack the Smoker, all’anagrafe Giacomo Giuseppe Romano

Jack the Smoker, all’anagrafe Giacomo Giuseppe Romano

Milano, 13 novembre 2016 -  Un padre medico, la laurea in Psicologia e il matrimonio con un’insegnante. È il percorso un po’ "anomalo" del più "ortodosso" fra i rapper milanesi. Classe 1982, Jack the Smoker - all’anagrafe Giacomo Giuseppe Romano - è figlio della Milano Est. Da questa prospettiva il rap l’ha visto nascere e morire per poi contribuire alla sua resurrezione. Dopo una militanza decennale nella musica underground, nel 2012 ha fatto il suo ingresso in «Machete», la factory di Salmo e compagni per la quale, lo scorso marzo, è uscito l’album «Jack Uccide».

Attivo dagli anni Novanta, lei è fra i rapper più longevi. Com’è cambiata la scena?

«Agli inizi del Duemila si è assistito a un momento di scetticismo generale, una sorta di depressione del rap italiano. All’epoca eravamo degli outsider, tutto era circoscritto, e questo ci faceva sentire forti. Con gli anni, invece, è diventato molto più facile legittimare questo tipo di linguaggio che prima risultava poco credibile».

Milano che ruolo ha avuto?

«Questa città è stata l’epicentro della rinascita. Nei primi Duemila c’era la storica serata “The show Off” di Bassi Maestro. Un appuntamento fisso che, nel segno della musica hip-hop, riusciva ad aggregare il meglio della scena underground milanese e non solo. È stato in quell’occasione che ho conosciuto artisti come Mondo Marcio, Club Dogo, Marracash e gli altri con cui negli anni ho collaborato. Credo che quella circostanza abbia rappresentato il momento chiave del passaggio fra il vecchio e il nuovo e io ho avuto la fortuna di vivere in pieno quel momento».

E la sua infanzia? Per 14 anni ha vissuto nel quartiere Feltre, nella Milano Est…

«Lì ho trascorso un’infanzia felice nonostante il quartiere fosse vicino agli angoli di spaccio più celebri della città, un concentrato di tossici ed eroinomani. Eppure, fra i palazzoni, non mi sono mai sentito in pericolo».

L’angolo preferito della città?

«Parco Lambro. È rimasto sempre uguale a se stesso. Da piccoli scalavamo le collinette in bici e fingevamo di essere Pantani che in quegli anni era sulla bocca di tutti. Adoro anche San Siro: una zona magica capace di raggruppare intere folle. Ad affascinarmi meno è il centro, anche se, quando ero ragazzino facevo spesso la spola tra Duomo e San Babila con gli amici, quasi fosse un rito».

A Milano ha anche uno studio...

«Si chiama “Caveau Studio” e si trova in una traversa di viale Umbria. Qui lavoro come fonico, mi occupo di mixaggio e master sia per me stesso che per altri artisti. Ho deciso di aprire un mio studio a Milano perché questa città è l’epicentro del rap e volevo essere nel centro delle cose. Da noi bazzicano tutti gli artisti Machete, Nerone, Axos e un po’ tutta la Milano underground».

Ma che effetto fa suonare davanti a tante persone?

«È una sensazione bellissima, un’occasione importante per crescere. In un certo senso però preferisco esibirmi davanti a un pubblico ristretto dove il rapporto con chi ti ascolta è più diretto».

Insegna anche scrittura creativa nelle suole e nei centri di aggregazione giovanile…

«Esatto. Quest’attività è un po’ il mio “cavallo di Troia” perché, attraverso il linguaggio del rap, riesco a farmi accettare dai ragazzi. Questo consente loro di aprirsi e raccontarsi molto più facilmente per poi condividere l’esperienza con i propri pari. Spesso durante le lezioni faccio leva sul concetto di “squadra”. Raccontando la mia esperienza in una realtà come Machete voglio spiegare loro come, con un po’ di concretezza, la passione possa trasformarsi anche in un lavoro».

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