Finito l'arruolamento nelle piazze, il caporalato 2.0 sfugge ai controlli

Il caporalato, nel mondo dell’edilizia, a Milano e dintorni, esiste ancora. Solo che è sommerso, come un fiume carsico, e corre sulle linee di telefoni e chat di Fabrizio Lucidi

Operai in cantiere (Newpress)

Operai in cantiere (Newpress)

Milano, 28 agosto 2015 - Dimenticate i manovali clandestini in attesa, zaino in spalla, alle 5 del mattino, in piazzale Lotto, piazzale Loreto o Maciachini, in attesa che il caporale li arruoli su due piedi e li faccia salire sul furgone per portarli al cantiere. È ormai “archeologia” del lavoro in nero, un sistema vecchio seppellito dalle nuove forme di reclutamento basate sulla tecnologia e con molte più possibilità di sfuggire ai controlli. Perché il caporalato, nel mondo dell’edilizia, a Milano e dintorni, esiste ancora. Solo che è sommerso, come un fiume carsico, e corre sulle linee di telefoni e chat. 

Se a un imprenditore edile senza troppi scrupoli servono braccia a poco prezzo, basta affidarsi a uno dei “ras” della piazza di Milano. Nell’ambiente, tutti li conoscono: c’è il caporale specializzato in gessisti, l’altro in manovali semplici, l’altro ancora in ferraioli e così via. Ogni “ras” coltiva il suo settore, ha gli imprenditori di riferimento e un giro di operai disposti a lavorare in nero. Affidabili, nel senso che terranno le bocche cucite perché hanno bisogno di lavorare. Meno sanno di regole e sindacati, meglio è. E il reclutamento, spesso, avviene su base etnica. Anche se il caporalato è un fenomeno fluido, difficile da inquadrare in etichette e numeri. Basti pensare che la Direzione territoriale del Lavoro Milano-Lodi nei primi sette mesi del 2015 non ha accertato alcuna violazione su questo fronte, pur portando a termine 431 ispezioni, con la rilevazione di 269 violazioni di misure preventive di sicurezza nei cantieri, 34 lavoratori in nero scovati, 11 casi di falsi lavoratori autonomi, e un imponibile contributivo di 610mila euro, cioè soldi né pagati come contributi né finiti in tasca all’operaio.

Grazie agli ispettori, nei primi sei mesi dell’anno lo Stato incasserà 123.500 euro. Ma sul fronte dei caporali, nulla. «Quando l’edilizia era ai massimi, fino alla prima metà del Duemila, c’erano i mercati di braccia a cielo aperto – ricorda il segretario generale di Fillea-Cgil Milano, Gabriele Rocchi –. Ora il fenomeno è quasi sparito. Nei sei anni fra 2008 e 2014 l’edilizia a Milano è crollata del 40% nonostante grandi opere come Brebemi, Teem e Expo. Ormai i caporali hanno trovato mezzi di arruolamento più tecnologici, che sfuggono ai controlli. Se io imprenditore senza scrupoli ho bisogno di 10 gessisti, 15 carpentieri, 20 ferraioli, so chi chiamare. Il caporale, non sempre straniero, procura la manodopera fra i suoi soliti giri di operai. Spesso della sua stessa comunità di riferimento».  Non c'è prezzo fisso per la giornata. Dipende dalle abilità e dal potere di trattativa dell’operaio. «Se sei un artigiano esperto, e sei italiano, il tuo potere “contrattuale”, anche se stiamo parlando di pagamenti in nero, è più alto – spiega Rocchi –. Se sei un migrante senza permesso di soggiorno e hai bisogno di lavoro per avere il documento, il tuo potere è molto più basso». Purtroppo, le denunce di persone sfruttate si contano sulle dita di una mano. Sulle circa 160 vertenze avviate nell’ultimo anno dalla Cgil - gran parte per problemi di natura economica - pochissime sono state presentate da manovali di caporali.

«I motivi sono intuibili – rivela il segretario della Fillea –: dalla mancanza di testimoni che è fondamentale per provare un’accusa in giudizio, alla paura di ritorsioni personali. O all’impossibilità di poter trovare un altro posto se si fa denuncia». Perché a quel punto, fra i “ras” del settore, scatterebbe subito il passaparola. «Eppure, nei nostri giri nei cantieri, almeno due manovali a settimana ci segnalano situazioni di sfruttamento – rivela Rocchi –, pochissimi poi decidono di affrontare una vertenza». Allargando il campo, i temi del caporalato e del lavoro in nero sono legati a doppio filo a quello della sicurezza. «Ci si fa molto più male in condizione di minore regolarità – argomenta il sindacalista –. Non si fa formazione, non ci sono tutele né misure di protezione. Tutte le ricerche evidenziano che c’è correlazione fra aumento dell’intensità lavorativa e infortuni». Anche perché mentre nel settore industriale il progresso tecnologico ha innescato una rivoluzione, nell’edilizia l’effetto è stato marginale. È un mondo legato a regole arcaiche. «L’interesse delle ditte è sempre quello di fare cose a minor costo e in fretta. Il risultato? Aumentano sia l’intensità del lavoro che gli infortuni – spiega Rocchi –. E fra gli operai in nero il titolare ha potere di ricatto. Ti dicono: “Se ti va bene è così, se no ne ho altri cento come te in attesa fuori dal cantiere”».

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