Omicidio Macchi, Binda libero dal fantasma di Lidia. "Carcere ingiusto, pronta la causa"

Varese, assolto per l’omicidio della studentessa. "Ci ho sempre creduto. Spero un giorno di incontrare i Macchi"

Stefano Binda il giorno dopo l'assoluzione

Stefano Binda il giorno dopo l'assoluzione

Brebbia (Varese), 29 gennaio 2021 - Nuovo look con baffi e pizzetto curati. Al polso sinistro la coroncina del rosario. Terminato l’appuntamento di ogni mattina con la messa ("Ho incontrato gente che mi ha detto di avermi sostenuto, di avere pregato per me"), Stefano Binda rientra con un fascio di giornali nella casa di Brebbia dove lo attendono la mamma Mariuccia e le visite dei giornalisti. Dopo il verdetto della Cassazione che ha confermato la sua piena assoluzione per l’omicidio di Lidia Macchi, ha trascorso la prima notte e vive le prime ore di una sorta di nuova vita.

A 53 anni. Binda, si attendeva questo epilogo felice? "Sì, ho sempre confidato. Quello che più si è fidato del sistema sono stato io. A differenza di altri. Confidavo molto. Trovavo la condanna ingiustificata e che la sentenza dell’ergastolo fosse agghiacciante. In primo grado è stato montato contro di me un processo indiziario e ne è risultato un processo di prove positive a mio favore. Eppure ho ricevuto l’ergastolo. La sentenza di secondo grado, che ha ben riconosciuto queste prove, era ineccepibile. E francamente i ricorsi non erano all’altezza. È importante che tutti sappiano che in Cassazione il procuratore generale, anziché contrapporsi per partito preso come se fosse un ‘avvocato dell’accusa’, ha chiesto la conferma dell’assoluzione e che l’ha fatto senza rimettersi alla Corte. Una cosa davvero confortante. Non è importante solo per Binda, ma anche per tutto il sistema". Cinque anni e tredici giorni dall’arresto. Tre anni e mezzo in carcere. Chiederà il risarcimento per ingiusta detenzione? "Ho intenzione di farlo. C’è quello che è giusto e quello che non è giusto. C’è la devastazione economica della mia famiglia. Non posso andare da tutti i creditori dicendo ‘siamo stati assolti’. Ciò che è giusto è giusto. Per quello che non è giusto andrò avanti". Cosa vorrebbe dire, oggi, ai familiari di Lidia Macchi? Vorrebbe parlare con loro, incontrarli? "Il mio auspicio è che la famiglia Macchi torni a essere, anche nei miei riguardi, la famiglia Macchi e non più la parte civile, la privata accusa, la controparte di una parte, la mia, che oggi non esiste più dopo l’assoluzione per non avere commesso il fatto. Senza enfatizzare, sarebbe importante se ci fossero le condizioni per uno scambio di parole, per poterci incontrare. Ma se quelle condizioni non ci sono e al momento non le vedo, rischieremmo solo di farci reciprocamente altro male. Una delle cose più dure nella mia detenzione è stato sapere che il signor Macchi, che conoscevo come il signor Giorgio, era deceduto e che prima che lasciasse questo mondo si era sentito dire che avevano preso l’assassino di mia figlia e che ero io". Si sente una vittima? "Da parte degli inquirenti si voleva concludere, riuscire a dire la parola fine". Le hanno attribuito come indizi di colpevolezza la poesia “In morte di un’amica“. Appunti e notazioni come «Stefano è un barbaro assassino», «Caro Stefano sei fregato», sono stati letti come autodichiarazioni di autoaccusa. "Non ho scritto ‘In morte di un’amica’. È stata attribuita all’assassino quando era un tentativo di consolazione della famiglia in termini religiosi. C’è una immagine che non è quella della mamma di Lidia con il piccolo Alberto, ma la Madonna con San Giovanni. Il ‘velo di tempio strappato’ non è la verginità violata di Lidia. È l’ultimo atto della Passione: il Signore spira, terremoto e il velo del tempio che si spezza. Non ho mai scritto la frase ‘Stefano è un barbaro assassino’. Le altre cose erano pensieri, poesiole di un ragazzo e niente più". Come sarà ora la sua vita? "Ho un senso di attesa. In positivo. Di sicuro, cerco un lavoro. Dopo essermi guadagnato la libertà, adesso devo guadagnarmi da vivere". Come ricorda Lidia Macchi? "Fra noi c’era conoscenza, frequentazione no. Infatti anche la mamma di Lidia al processo ha detto di avermi conosciuto quando sono andato in casa per le condoglianze. Ne avevo però stima. Ricordo una volta che si tornava in pullman no so da dove. Sosta a un autogrill. Lidia discuteva con un’altra ragazza. C’era tutta la sua esperienza di fede. Diceva ‘Gesù’ e non ‘Cristo’: con una familiarità che io non conoscevo".