Morti in corsia a Saronno, intervista esclusiva Cazzaniga: «Non sono il diavolo»

Il medico sotto processo per 15 decessi sospetti. "Il protocollo? Solo pietà"

Leonardo Cazzaniga in aula

Leonardo Cazzaniga in aula

Busto Arsizio (Varese), 7 aprile 2019 - Si racconta per la prima volta e lo fa in esclusiva per Il Giorno. Leonardo Cazzaniga, ex aiuto primario del pronto soccorso di Saronno, viene processato in Corte d’Assise a Busto Arsizio per gli omicidi di dodici pazienti in corsia e per quelli di tre familiari (la madre, il marito, il suocero) della sua compagna di un tempo, l’infermiera Laura Taroni. È detenuto a Busto.

Dottor Cazzaniga, scusi la banalità della domanda: cosa prova un uomo, per giunta un medico, accusato di quindici omicidi?

«Sono stato investito inizialmente da un senso di straniamento, quindi da un profondissimo dolore esistenziale che mi ha condotto più volte, in questo lungo periodo di detenzione, alla elaborazione di un pensato in prima istanza - ed in ultima - di un agito suicidiario».

Come nasce il “protocollo Cazzaniga”, con questo nome, con queste finalità?

«Con ‘protocollo Cazzaniga’ ho inteso riferirmi a un insieme di principi eminentemente rivolti a consentire a persone ormai giunte in prossimità della fine della loro vita, e senza alcuna prospettiva di guarigione, di morire libere dal dolore e dalla sofferenza agonica, con la massima attenzione possibile anche ai sentimenti delle famiglie».

Quando iniziò a pensarlo?

«Iniziai l’elaborazione di questa mia riflessione all’indomani della morte di mia zia, rendendomi conto della assoluta mancanza di attenzione da parte di moltissimi medici nei confronti di questi pazienti e di questo unico e dolorosissimo momento della nostra esistenza. Vorrei specificare meglio la risposta: il ‘protocollo’ (che ormai penso sia di pubblico dominio) nasce da una lunga e sofferta riflessione sul tema del fine vita, del dolore e della sofferenza (anche sulla base di mie esperienze personali) e su come per troppo tempo ci si sia letteralmente voluti dimenticare di questi pazienti e del dramma loro e dei loro familiari. Ho provato più volte una sensazione di profondo disagio e vero disgusto vedendo come molti miei colleghi trattavano questi esseri umani con fredda indifferenza, anempatia e, financo, crudeltà. Tutto ciò mi è stato intollerabile e, per quanto ho potuto, ho dato una risposta personale, quasi in forma di uso silenzioso. Per sgombrare il campo da mefitici fraintendimenti, ribadisco sin da ora che questa mia elaborazione si è avvalsa della lettura e dello studio di testi riguardanti la scienza e la morale sottesa alla medicina palliativa».

Quindi l’unico scopo che si proponeva era quello di lenire le sofferenze di pazienti ormai prossimi al decesso, condannati?

«Non amo il termine condannati. La morte non è una condanna, ma il nostro orizzonte ultimo. Di fronte ad una morte ormai imminente ed ineludibile, in assenza di ogni possibilità di guarigione, il mio unico scopo è sempre stato quello di evitare le atroci sofferenze dell’agonia, lenendo i sintomi che si presentano nella ‘proximitas mortis’».

Non ha pensato che potesse essere una decisione arbitraria, anche rischiosa per i malati?

«Assolutamente no, nessun rischio per il paziente in quella condizione di morte imminente e ormai certa, ma solo il beneficio dovuto al poter giungere ad una morte naturale, liberi dalla sofferenza agonica che la precede e che angoscia il malato e la famiglia».

Ci sono, però, anche le tre morti nella cerchia familiare di Laura Taroni.

«Il marito non è morto né per mano né per intento mio. La madre è mia intima convinzione, come uomo e come medico, che sia morta di encefalite virale fulminante. Il suocero nelle more della ‘proximitas mortis’, ha (a mia iniziale insaputa) forse goduto di una sedazione palliativa terminale assai blanda».

La Taroni l’ha chiamata pesantemente in causa per la morte della madre.

«La signora Taroni ha desertificato il mio terreno emotivo con le sue mendaci accuse. Il mio profondo amore per lei mi ha accecato, impedendomi di vedere e di comprendere il suo progetto. Ora, retrospettivamente, tutto è molto chiaro. Sono comunque felice che lei possa vedere i suoi figli, che io ho amato come se fossero miei e di cui sento l’inemendabile assenza».

Quali pensa che siano le ragioni che hanno spinto due infermieri del suo reparto ad accusarla, a denunciarla?

«La denuncia è partita da una sola infermiera. Le ragioni affondano in un assai difficile rapporto interpersonale (che non esito a chiamare odio) e nella incapacità dei più di comprendere le ragioni del mio operato, ragioni che non ho mai ritenuto di dover spiegare per motivi di incompatibilità caratteriale».

Cosa si attende dal processo?

«Mi attendo che si palesi la verità del mio agire, scevro da quei contenuti di ‘voluntas mortis’ demoniaca con i quali sono stato dipinto. Sono convinto che apparirà l’alto valore etico-morale dei miei atti».

Rifarebbe le scelte fatte?

«Assolutamente sì. Cercherei di creare maggior sensibilità sul tema, alimentando il dialogo e la discussione, evitando così di trovarmi solo ed isolato come è successo in passato. Spero anzi che questa vicenda apra e allarghi ancor più il campo, assai delicato, di una discussione-riflessione sul tema del fine vita e che si giunga finalmente all’apertura di un orizzonte che veda il morente come essere umano di cui avere massima cura».