REDAZIONE VARESE

Binda, battaglia sull’indennizzo I legali: "Giusto riconoscerglielo"

Omicidio Macchi, una memoria indirizzata alla Cassazione dopo il ricorso della Procura generale

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L’indennizzo a Stefano Binda per ingiusta detenzione è giusto, legittimo, dovuto. La difesa contrattacca e la lunga guerra è pronta a riprendere, questa volta davanti ai giudici della Cassazione. A Roma, nel maestoso palazzo di piazza Cavour, arriverà con gli atti, anche la memoria depositata dall’avvocato Patrizia Esposito, difensore del 54enne laureato in filosofia di Brebbia condannato in primo grado all’ergastolo dalla Corte d’Assise di Varese per l’omicidio di Lidia Macchi, ma poi assolto con formula piena per non avere commesso il fatto dalla Corte d’Assise d’appello di Milano (assoluzione cristallizzata e resa definitiva dalla Suprema Corte). Un mese fa la quinta sezione dell’Appello milanese ha accolto l’istanza di risarcimento per ingiusta detenzione avanzata da Binda riconoscendogli un indennizzo di 303,277, 38 ero per il 1.286 giorni vissuti in cella, gravato dalla terribile accusa di essere il predatore assassino della studentessa di Varese, trucidata con ventinove coltellata la sera del 5 gennaio 1987, nella zona di Cittiglio. Ma ecco il colpo di scena rappresentato dal ricorso in Cassazione firmato dal sostituto procuratore Laura Gay. La richiesta sottoposta agli “ermellini“ è quella di dichiarare che i giudici milanesi hanno sbagliato nell’interpretazione della legge che prevede l’indennizzo nei casi in cui l’arrestato non abbia concorso all’erroneo arresto con propri comportamenti, anche soltanto colposi.

Non si tratta (è il punto centrale del ricorso della Procura generale) di entrare nel merito, definitivo dopo tre gradi di giudizio. Si deve invece valutare se il comportamento tenuto da Binda (che si è avvalso a più riprese della facoltà di non rispondere) possa essere un elemento su cui si è fondata la misura di custodia cautelare. Secondo la Procura generale Binda "con i suoi silenzi" avrebbe "contribuito all’errore sulla sua carcerazione". In una memoria di una decina di pagine Esposito ribatte punto su punto. I motivi del ricorso della Procura generale sono tutti inammissibili e infondati. Non ci sono un solo comportamento da parte di Binda, una sola circostanza, che possano avere "spinto" l’emissione del provvedimento restrittivo e il suo mantenimento. Quello di tacere è un diritto dell’indagato. Ma Binda ha sempre risposto sia "prima", sia in seguito, durante il processo, quando la misura cautelare era ancora in corso.

Gabriele Moroni